Categoria: Il Coaching come punto di incontro tra Focus, Agentività e Agilità

Categoria: Il Coaching come punto di incontro tra Focus, Agentività e Agilità

Il Coaching come punto di incontro tra Focus, Agentività e Agilità

Io come Coachee

Non avrei mai pensato di avere bisogno di un Coach, ho sempre ritenuto di essere una persona che si attiva in modo organizzato e proficuo per raggiungere quello che desidera, ho sempre ottenuto risultati soddisfacenti, per cui: perchè mai avrei potuto aver bisogno di un Coach?

Poi il mio percorso per diventare Professional Coach e l’incontro con quella che sarebbe stata la mia prima Coach. Le prime sessioni che l’insegnante definiva “spintanee” per quanto non avessimo argomenti che spontaneamente ci portavano in un percorso di Coaching. E poi… in quei mesi sono successe cose che mi hanno portato ad entrare in una sessione “spintanea” mentre ero consapevolmente in una crisi di autogoverno e trasformarla nella mia prima vera sessione da Coachee. È stato lì, nel corso di quell’ora, che ho sentito un click, la mia vibrazione cambiare completamente e ne sono uscita con l’energia e la spinta per fare, non ultimo con la chiarezza su cosa io volevo fare. La sessione successiva è successa la stessa cosa e così via.

Eppure, io mi sono sempre considerata una persona che si attiva senza particolare inerzia all’avvio; ho compiuto studi ed esercitato professioni che mi hanno insegnato a progettare le azioni, organizzarle, monitorarle e metterle in campo. Cos’era cambiato? Perchè in quella sessione e nelle successive ho sentito il click? Perchè avevo bisogno di quel percorso proprio io e proprio in quel momento?

Allora ho capito, l’ho capito nel momento stesso in cui ho sentito la mia voce raccontare ad un amico cos’era stata per me l’esperienza da Coachee.

 

Il mio obiettivo

La mia consapevolezza di avere le risorse per giocare la mia partita, di poter attivare cambiamenti, mi aveva fatto perdere di vista la partita, il cambiamento stesso.

Ho compreso quanto la migliore delle barche senza una meta possa girare a vuoto e quanto girare a vuoto sia frustrante. Perchè se sei sicuro che “sai fare” e che “puoi fare”, quando non ti muovi verso una condizione migliorativa perché “non sai cosa fare”, soffri. Soffri perchè il tempo è senza senso e perchè manca un significato.

Faccio un passo indietro e torno alla mia crisi di autogoverno, tutta quella attivazione, tutta quella consapevolezza di poter e saper fare e… niente. Era come sentire una spinta da dentro e allo stesso tempo sentire il corpo e la mente soffrire ad ogni assalto senza riuscire a muoversi. Come muoversi? Cosa volevo davvero per me? Non me l’ero mai chiesta. C’erano mille possibilità e allo stesso tempo non ce n’era nessuna, perché erano così tante, tutte dello stesso colore, della medesima importanza e tutte nella stessa nebbia.
 

Le mie risorse

Come anticipato, la mia vocazione da problem solver mi ha permesso di allenare i miei motori e le mie risorse rispetto a problemi definiti e delineati da altri, a prendere coscienza del mio potere e potenziale di risolutrice, ad attivarmi e a raggiungere i traguardi che altri avevano fissato e che mi ingaggiavano per risolvere.

Da quando sono una professionista adulta non ho mai dubitato di possedere una naturale agentività, mio percorso prima di studi, poi professionale mi hanno permesso di rafforzare il mio senso di “autoefficacia” e di mettere a fuoco le risorse su cui potevo puntare, finchè non ho conosciuto il Coaching però tutta la mia agentività era in grado di attivarsi e operare solo in relazione a obiettivi esterni a me. Per tornare alla metafora della barca: non vedevo altra meta che il navigare stesso, fino a quando il navigare fine a se stesso non mi ha fatto allontanare troppo dal porto senza sapere in quale porto io stessi andando, trovandomi nel mezzo di una crisi di autogoverno.

Quando ho iniziato il mio percorso di coaching mi sono sentita di non essere più sola, sulla mia barca c’era la mia Coach che non aveva la più pallida idea di dove io volessi andare, che non aveva nessuna intenzione di toccare il timone o di spiegare le vele, però stava lì. Mi ascoltava, ogni tanto diceva qualche parola, mi faceva una domanda e il solo fatto che lei fosse lì autorizzava la mia mente a verbalizzare qualcosa con cui da sola non ero in stata in grado di fare i conti: “quello che io volevo costruire per me”.

In questo percorso ho imparato a fidarmi delle immagini che la mia mente produce quando mi pongo delle domande, a continuare a farmi domande e a unire i puntini che io stessa traccio. Ho scoperto che ho la necessità di dedicare tempo per riflettere sulle mie mete, ho scoperto che è necessario sospendere il giudizio anche quando si ascolta se stessi e non solo quando si ascoltano gli altri.

Ho sperimentato che mettere le proprie risorse e potenzialità al servizio di qualcosa di esterno a se stessi, ad un obiettivo non definibile come “proprio”, è simile ad una camminata sul tapis roulant, aiuta a mantenere il tono muscolare, ad allenare i polmoni e a capire per quanto tempo si potrà camminare prima di sentire dolore alle gambe e anche a dosare le proprie energie per raggiungere un obiettivo, allo stesso tempo questa camminata non porta lontano dal punto di partenza e prima o poi arriva la domanda: “come tutte queste risorse che ho potenziato possono apportare beneficio alla mia vita?”. Questo interrogativo è accompagnato da un senso di frustrazione e di amarezza, perché il bisogno di significato è sempre lì che aspetta al varco, specialmente in quelle giornate di fine gennaio in cui sembra arrivare subito sera. Ho sperimentato la fuga davanti a questa domanda, ho sperimentato l’urgenza di trovare una risposta. Ho sentito quanto tutte le risorse allenate, nel momento in cui mi sono sentita incapace di utilizzarle, siano diventate rumorose e fastidiose dentro di me, quasi un lamento continuo a chiedermi conto di quel significato, con la pretesa di fare la loro parte.

Oltre all’importanza della definizione delle mie mete, e alla sospensione del giudice supremo interiore nel cercare di delinearne le coordinate, ho sperimentato quanto nulla possa e debba essere percepito come definitivo, di quanto invece sia importante l’osservazione costante delle sensazioni e intuizioni. Fare i conti con un obiettivo che a metà strada non mi interessava più è stata parte del gioco, accettare di aver sperimentato per conoscermi meglio è stato apprendimento.

 

Le mie convinzioni

Incontrare le mie convinzioni e iniziare a ridimensionarle è stato un passaggio importante per permettermi di focalizzare i miei obiettivi. Definire un obiettivo su cui spendersi a livello di risorse, energie e, non ultimo, reputazione è una missione complessa quando ci si basa su due convinzioni così radicate da non riuscire nemmeno a vederle. Durante le mie sessioni si sono presentate spesso ad allarmarmi sotto forma di ammonimento:

  1. “Se sbagli sei fuori dai giochi”
  2. “Se non è tutto sotto controllo è meglio non giocare”.

Darmi la possibilità di commettere un errore, o meglio darmi la possibilità di rivedere una scelta fatta in precedenza e che non si è manifestata proficua, mi permette di scegliere anche quando non posso avere tutte le informazioni e la certezza che tutto andrà per il meglio. Considerare che agli imprevisti e alle sorprese mi posso attrezzare solo e con la prontezza nel tracciare un altro piano ed evitando la mortificazione, mi permette di trovare la chiave per agire in un contesto che per sua natura è incerto e variabile.

 

L’Agilità del mindset

Tutto questo mi porta a introdurre un mindset “Agile” nella progettazione della mia vita e a spingermi oltre rispetto al modello di un classico, che nel project management definiremmo Waterfall, integrando nello scenario una complessità e un’incertezza che relativizzano l’errore ad un passaggio di esplorazione di una meta non predeterminabile a priori. Una volta rimossa la pretesa di avere l’intero quadro delle informazioni per definire la direzione verso cui attivarsi e una volta accettato l’errore come un ulteriore modalità per acquisire consapevolezza, diventa molto più facile focalizzare un obiettivo, concedendosi anche la possibilità di modificarlo prima di averlo raggiunto, perché come detto sopra: non è sempre possibile conoscere e controllare tutte le variabili in gioco.

Altro elemento di estrema agilità che ho sperimentato è stato la definizione di obiettivi relazionati a orizzonti temporali differenti, attribuendo dignità anche ad un obiettivo da perseguire in un’ora, poi in una settimana a fronte di un obiettivo macro da perseguire nel percorso. Una scomposizione simile ad una Work Breakdown Structure ma con la flessibilità di poter rivedere in ogni momento qualsiasi livello di obiettivo, affrontandone quindi il raggiungimento con la curiosità e con l’apertura che sono tipiche delle sperimentazioni.

Torno ora all’inizio di questo articolo, quando ho detto di aver sentito la mia voce raccontare ad un amico cosa aveva rappresentato il mio percorso da coachee, ed è forse la sintesi di tutto quanto detto: “La visualizzazione della mia vita come il migliore dei progetti in cui impiegare le mie risorse”.

 

 

Stefania Magnani

Change & Innovation Manager | Coach Professionista
Reggio Emilia (RE)
stefania.magnani@gmail.com

 

 

 

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