Senza “se” e senza “ma”
Introduzione
Mi piace pensare che il coach sia la luce intensa che guida il coachee verso l’uscita che cerca. La relazione facilitante che s’instaura tra loro rappresenta la forza di cui si nutre il coachee per uscirne. Infine, il piano di azione rappresenta lo strumento di cui si serve il coachee per camminare e allontanare gli ostacoli. Un’esperienza fantastica nella quale si riscontra un bel paradosso: si è insieme ma allo stesso tempo si cammina da soli.
La relazione di coaching è una delle più leali, trasparenti e autentiche che esistano. Per il coach si tratta di accettare l’altro cosi com’è, accoglierlo, ascoltarlo e guidarlo nel suo percorso di conoscenza di sé. Di sostenerlo a scoprire le cose straordinarie di cui è capace. Vedere solo queste cose potenzialmente straordinarie, senza mai vedere imperfezioni o impedimenti. Senza mai dubitare e giudicare. Essere empatici ma allo stesso tempo oggettivi. Quindi, avere piena fiducia. Un’alleanza incondizionata, un supporto SENZA SE E SENZA MA.
Premesse
Questa tesi è innanzitutto una vera sfida. Perché, con tutta l’autenticità che il coaching richiede, intendo … accogliere chi non è mai stato accolto ma sempre evitato … allearmi con chi nessuno mai si alleerebbe ma che tutti combattono… identificare e sviluppare il potenziale di chi si è visto solo i difetti e gli errori … ascoltare e far sentire protetto chi non è mai stato ascoltato, per cui hanno parlato gli altri e che si è sentito sempre insicuro … trattare obiettivamente e senza dare giudizi chi è tutti i giorni bersaglio di giudizi … dare fiducia a una persona di cui tutti diffidano … sostenere ed accompagnare per il raggiungimento degli obiettivi di chi ha avuto e raggiunto come unico obiettivo quello di … DELINQUERE.
Inoltre questa tesi rappresenta un vero progetto più che un contenuto teorico. Si intende realizzare, sulle basi di questo progetto, una variante più dettagliata e proporla alle istituzioni competente per ottenere l’approvazione all’implementazione e all’assegnazione dei fondi europei.
I protagonisti del progetto illustrato attraverso questa tesi sono i detenuti. Sono persone che, mentre scontano i loro errori, subiscono spesso un processo di “peggioramento” che naturalmente influisce sul loro futuro anche fuori dalle carceri.
Riguardo alle carceri, mi è rimasta impressa in mente una battuta di un film perché implacabilmente vera: il protagonista George Jung interpretato da Johnny Depp afferma: “sono entrato in galera con un diploma in marijuana e sono uscito con un dottorato in cocaina”. Entrano male ed escono peggio. Ho la convinzione che il coaching sia la soluzione per entrare male e uscire migliore. Il coaching può offrire ai detenuti un cambiamento personale che porta alla consapevolezza, all’assumersi delle responsabilità, a scoprire delle potenzialità mai percepite, all’identificazione degli obiettivi inesplorati. Ritengo che siano tra le persone più adatte al metodo del coaching.
Ipotesi
La presente tesi ha due ipotesi: una che riguarda il metodo del coaching e un’altra che riguarda il caso in questione.
Sarebbe giusto pensare che tutto ciò che si svolge in condizioni ideali è destinato ad avere successo. Concordo sia ideale nel coaching che il percorso sia la conseguenza della richiesta del coachee. Ideale. Non indispensabile. La prima ipotesi è che il percorso di coaching può avere successo, anche se non rappresenta sin dall’inizio l’espressione della volontà del coachee. Ci sono delle condizioni in cui il coachee non la richiede, non ha degli obiettivi, non ha nemmeno idea di cosa significa un percorso di coaching eppure ho la convinzione che, specialmente in mancanza di alternative, si può applicare con successo. Ho identificato nei detenuti dei soggetti che sono idonei per questa tipologia di percorso.
La seconda ipotesi riguarda l’applicazione del metodo del coaching al caso specifico dei detenuti che potrebbe essere una risposta ad un bisogno sociale. Portare i detenuti su un percorso di coaching potrebbe ridurre gli atti di disperazione che essi commettono in carcere. Inoltre, sempre perché porta a uno sviluppo e un cambiamento positivo della persona, potrebbe ridurre anche la frequenza di recidiva. Le persone coinvolte nel progetto subiranno un processo di cambiamento e miglioramento personale acquisendo consapevolezza, autonomia, responsabilità, autostima. Inoltre, avranno modo di identificare obiettivi da mettere in pratica da subito o una volta scontata la pena.
Metodologia
Sono stati utilizzati metodi di ricerca di tipo quantitativo e qualitativo. Sono stati analizzati vari documenti ufficiali nazionali e report, sondaggi e statistiche dei vari istituti, articoli di giornali, testimonianze interviste.
Per la fase pratica del presente progetto sarà attuato naturalmente il metodo di coaching che rappresenta “un metodo di sviluppo di una persona, di un gruppo o di un’organizzazione, che si svolge all’interno di una relazione facilitante, basato sull’individuazione e l’utilizzo delle potenzialità per il raggiungimento di obiettivi di cambiamento/miglioramento autodeterminanti e realizzati attraverso un piano d’azione”.[1]
Dati statistici
In Italia sono circa 60.000 detenuti. Il report Istat dell’anno 2011 rileva a dicembre 2011 un totale di circa 67.000 detenuti dei quali più della meta (quasi 55%) recidivi, il 42% con carcerazioni da 1 a 4, mentre il resto di 12% con addirittura più di 5 carcerazioni.[2] Le violazioni della normativa sugli stupefacenti rappresentano la tipologia più diffusa di reati per i detenuti presenti (27.459). Seguono i reati contro il patrimonio, per i quali si contano 17.285 detenuti che hanno commesso rapine e 13.109 furto. Dei 38.023 condannati detenuti in carcere circa la metà (il 51%) deve scontare una pena inferiore a cinque anni. È importante enfatizzare che il 58,3% dei detenuti ha meno di 40 anni. Una quota minoritaria (neanche il 17%) ha più di 50 anni e circa il 5% più di 60 anni. Quasi la metà sono nubili o celibi. Un aspetto rilevante è costituito dagli episodi drammatici che hanno luogo all’interno delle carceri: sucidi, tentati suicidi e atti di autolesionismo[3]. Si aggiungono varie forme di protesta: sciopero della fame, rifiuto del vitto e delle terapie e danneggiamento degli oggetti.[4] Il sovraffollamento delle carceri è una delle cause di questi atteggiamenti e uno dei problemi più urgenti da risolvere. Scade il 28 maggio 2014 il periodo concesso dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo all’Italia per dotarsi di misure idonee a eliminare il problema del sovraffollamento carcerario.
Elaborazione
1. In fase iniziale saranno presi in considerazione i detenuti condannati con pene brevi e per reati minori. Saranno inclusi nel progetto in misura uguale detenuti recidivi e detenuti al primo reato, con una rappresentanza uniforme per tutte le fasce di età. Saranno completamente esclusi i detenuti in attesa di giudizio, quelli internati per disturbi mentali e come già indicato i detenuti per reati gravi. Saranno avvantaggiati gli individui che hanno commesso tentati suicidi oppure atti di autolesionismo, solo su indicazione precisa di una figura professionale delle istituzioni carcerarie (psicologo, commissioni di valutazione ecc.).
Dato che non ci sono i presupposti ideali per un percorso “standard” si crea un percorso speciale, molto concentrato e sbilanciato sulla creazione della relazione facilitante.
2. Una sessione zero è prevista a gruppi per spiegare il metodo e i benefici che possono avere. Si enfatizzano l’impegno del coachee e l’assenza di garanzie da parte del coach nel raggiungimento degli obiettivi autodeterminati utilizzando un linguaggio poco complicato o complesso, adatto alle persone di media istruzione. La firma del contratto e una riconferma delle cose contenute si eseguono separatamente con ogni detenuto nella sessione successiva.
3. La fase più importante del percorso è creare una relazione facilitante che il detenuto quasi sicuramente non ha mai sperimentato in tutta la sua vita. Ritengo che la relazione debba assumere una rilevanza particolare essendo la componente più impegnativa, più difficile da realizzare ma anche la più significativa per l’auto-assegnazione ed il raggiungimento degli obiettivi del coachee.
Analizziamo ognuna delle caratteristiche rilevanti della relazione facilitante e le loro peculiarità nel caso dei detenuti.
Accoglienza
Per quanto concerne l’accoglienza penso sia rappresentativa la frase “ sono onorato di entrare nel tuo mondo”. “Chi sarebbe mai onorato di entrare nel mio mondo? Chi sarebbe mai disposto ad accettarmi incondizionatamente cosi come sono, di non giudicarmi e di darmi il supporto emotivo leale e trasparente?”. Sono tutte domande che potrebbero passare per la mente di un detenuto e, consapevole del suo status e del fatto di non essersi mai trovato in queste condizioni, potrebbe rendere difficile l’istaurazione della reazione facilitante. Il nostro particolare coachee dovrebbe avvertire in modo davvero intenso una relazione simmetrica, in totale assenza di giudizio e strumentalizzazione, e caratterizzata invece da tanta empatia e serenità.
Ascolto
Il fatto che “io ti faccio delle domande e tu rispondi” potrebbe suscitare sospetto nel caso di un detenuto. “Chissà che metodo è questo e cosa vogliono sapere da me ?” si potrebbe chiedere. Mettere in pratica l’ascolto efficace – tramite domande, silenzi e feedback– si potrebbe rivelare problematico, ragione per cui l’ascolto deve essere attuato sul fondo di un profondo stato empatico pur mantenendo l’indispensabile oggettività del coach.
Alleanza
Una bella sfida l’alleanza. Si deve dare la massima fiducia incondizionata a una persona di cui tutti, comprensibilmente, diffidano. Effettivamente, più che ad avere il coach difficoltà ad allearsi pienamente con il coachee, potrebbe avere il coachee serie difficoltà ad accettare questa fiducia incondizionata. Le persone che sbagliano, soprattutto pubblicamente, sono consapevoli del fatto che la prima cosa che perdono è la fiducia degli altri. Semmai, la fiducia è riconquistata in seguito, con grande impegno e gradualmente. Il coachee potrebbe non essere pronto a beneficiare di fiducia immediata e incondizionata.
Autenticità
Come già enunciato, il detenuto non è abituato ad avere una relazione come quella appena descritta in cui è accolto, ascoltato, in cui è trattato alla pari con fiducia ed empatia. Non deve assolutamente pensare di essere strumentalizzato o manipolato. Il suo stato di sospetto può essere eliminato solo dall’autenticità del coach ai massimi livelli.
Per le ragioni espresse in precedenza, con un coachee che non ha scelto volontariamente il percorso di coaching e che sente di ricevere attenzioni che, in quanto detenuto, non pensa di meritare o che in pratica non ha mai ricevuto, la situazione ideale del coaching IO sono OK – TU sei OK è difficile che si concretizzi ed è costantemente a rischio.
4. Dato che l’intervento di coaching non è la naturale scelta del coachee, si considera più opportuno in prima fase non indagare sull’esistenza di un obiettivo. Si ritiene più efficace in questo momento del percorso concentrarsi sull’ascolto e cura di se per identificare le proprie potenzialità e punti di forza. È essenziale stimolare la tendenza allo sviluppo e la proattività del coachee; individuare, consolidare e guidare all’applicazione delle potenzialità caratterizzanti; accompagnare e sostenere il coachee nello sviluppo dei propri talenti.
5. A questo punto, se non si è verificata una dichiarazione spontanea, si stimola il coachee all’individuazione e alla formulazione di un proprio obiettivo. Sarebbe ideale che l’obiettivo possa essere già perseguito in detenzione per potersi avvalere della fase di monitoraggio da parte del coach prevista dal percorso di coaching. In seguito, presi in considerazione i primi risultati del progetto, si potrebbe valutare e proporre anche la continuazione del percorso fuori del carcere nel caso in cui fosse necessario il monitoraggio. Tuttavia, si dichiara come obiettivo principale del percorso, la concretizzazione di un cambiamento positivo del coachee che possa portare alla presenza di atteggiamenti come consapevolezza, responsabilità e autonomia. Di conseguenza si auspicano una maggiore autostima, fiducia in sé, consapevolezza delle proprie potenzialità.
Conclusioni
Vorrei soffermarmi sul concetto di sfida. È vero che ogni coachee è speciale e originale, ogni percorso una sfida, ogni relazione facilitante è preziosa e irripetibile. Le persone sono uniche, pertanto ogni percorso è un’esperienza rara ed eccezionale. Un cammino in salita, fatto da tante complessità e ostacoli. In ogni caso, dalle analisi effettuate in precedenza sui concetti chiave del coaching, risulta che tutte mostrano particolari difficoltà nella loro attuazione quando il coachee è un detenuto. È proprio lo status di detenuto con le sue peculiarità che rende ogni piccolo passo del cammino una sfida. Vorrei tanto che oggi i miei occhiali da coach facessero la differenza: vedere una persona in divenire, con grande capacita di cambiamento ed enormi potenzialità e non una persona che sconta una pena, che ha fatto qualcosa di condannabile. Una persona che è capace di fare cose più belle e straordinarie di… me!
[1] Definizione del metodo di coaching secondo la scuola INCOACHING
[2] E stato preso in considerazione il report Istat dell’anno 2011 poiché completo di tutti i dati statistici necessari per il sostegno di questa ipotesi. Il dato complessivo è variato limitativamente nel tempo registrando un totale di 59.683 detenuti al 30 aprile 2014 rispetto a 66.897 detenuti registrati a 31 dicembre 2011.
[3] Solo nel corso dell’anno 2011 sono stati registrati 63 casi di suicidio (pari a 0,9 su 1.000 detenuti mediamente presenti in carcere). I casi di tentato suicidio registrati sono stati 1.003, mentre gli atti di autolesionismo sono stati 5.639.
[4] Lo sciopero della fame è la forma di protesta più diffusa, 6.628 casi nel 2011, seguono il rifiuto del vitto e delle terapie (1.179 casi) e il danneggiamento degli oggetti (529 casi).
Daniela Stancu
Coach Professionista / Sociologo
Padova
dana.stancu@gmail.com
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