Categoria: Coaching e arrampicata

Categoria: Coaching e arrampicata

Coaching e arrampicata

L’arrampicata e il coaching sono all’apparenza due mondi totalmente diversi e distanti, mentre ci sono moltissimi aspetti che li accomunano profondamente.

Quello per me più forte e significativo è il saper stare nel kairos, infatti sia l’arrampicata che il coaching richiedono una presenza piena nel momento che si sta vivendo.

Entrambi esigono di stare nel qui ed ora, la testa non può viaggiare altrove, sono indispensabili la concentrazione e l’attenzione ai dettagli, ai movimenti, a scegliere con cura la domanda, piuttosto che la presa successiva.
Tutto questo sarà determinante nella direzione che prenderà il percorso: se la domanda sarà quella potente toccherà le corde del coachee e lo porterà su una strada che apre a nuove prospettive, se la presa sulla roccia sarà quella giusta renderà la via meno faticosa e più leggibile.
Il qui ed ora è determinante, non conta cosa si stava facendo prima né cosa si farà dopo, conta solo cosa si può fare in quel preciso istante con le proprie mani, i propri piedi, la propria testa e tutto il potenziale, la creatività e l’energia che si ha a disposizione in quel momento.

Se il coach sta nel kronos, vive il tempo con ansia e frustrazione, ha la risposta ai problemi del coachee in testa e non sta al suo fianco, lì dove lui si trova in quel momento. Questo lo porta a fare domande retoriche, a dare risposte implicite e suggerimenti, entrando nella dimensione di una relazione di aiuto e uscendo suo ruolo.
Allo stesso modo, se chi fa sicura arrampicando vive il tempo come kronos, pensa di avere la soluzione ai blocchi del compagno che sta scalando, va in ansia se l’altro si arresta a riflettere, il tempo che passa sembra infinito e la soluzione così ovvia, vorrebbe suggerirgli la direzione più adatta secondo gli appigli che lui dal basso individua.
Ma dal basso non si è nella posizione di chi sta salendo, come il coach non è nei panni del coachee. Le sole cose favorevoli da fare in quel momento, per il coachee e per il compagno che scala, è seguire il loro ritmo, lasciare anche che sbaglino, avere fiducia, attendere, fare la domanda giusta, dare un feedback senza giudicare.

In entrambe le attività si costruisce una relazione evolutiva, caratterizzata da uno sguardo valorizzante e non giudicante.

Nel coaching si dà spazio allo sviluppo del potenziale del coachee, stimolando la consapevolezza e la messa in campo delle qualità che possiede, quelle da lui conosciute e quelle latenti, ancora nascoste o poco note.
Questo avviene attraverso le domande poste dal coach ma anche attraverso la proposta di visualizzazioni, di work-in e work-out, che vanno a stimolare la creatività e aiutano a prendere coscienza delle proprie potenzialità e abilità, utili a raggiungere l’obiettivo che il coachee si è posto. Il coach non solo non dà suggerimenti e non giudica, ma nemmeno corregge o critica le scelte del coachee.

In arrampicata la dinamica relazionale sana che dovrebbe crearsi è la stessa, con la differenza che si tende ad incitare il compagno di corda mentre sale. I feedback positivi sui punti forti che si osservano nell’altro aumentano la consapevolezza e l’autostima nella persona, che mentre sta salendo non fa caso ad alcuni aspetti perché troppo concentrata sul processo. Anche qui il non giudizio è fondamentale, il pensiero deve essere centrato al massimo su tutte le abilità che si possiedono, per metterle in campo nel momento più opportuno per raggiungere l’obiettivo ossia la cima.

La fiducia in sé e nell’altro è un altro aspetto molto forte in entrambe le situazioni.

Il coach ha fiducia in se stesso, nella sua professionalità e nelle sue competenze, come l’assicuratore ne ha nella sua capacità di fare sicura in modo attento e consapevole. Il coachee ha fiducia in sé nel momento in cui decide di intraprendere un percorso di coaching, come chi scala ne ha nelle proprie abilità e risorse per arrivare in cima, cercando di non dubitarne in nessun punto della via.

Questo creerebbe scoraggiamento, disagio, perdita della concentrazione e della motivazione. Al contempo il coach ha fiducia nel suo coachee, come chi fa sicura ha fiducia nel compagno che sale. Fiducia nel fatto che l’altro sa dove vuole andare, sa quali sono i suoi tempi e i suoi modi, e chi fa sicura sta al suo fianco per accompagnarlo andando al suo passo: dà corda man mano il compagno progredisce e rinvia, come il coach fa la domanda quando sente che il coachee è pronto a riceverla.

Se chi fa sicura recupera corda quando pensa che il compagno non riesca a fare il passaggio, e non quando è lui a chiederlo, rischia di farlo cadere. Allo stesso modo, se il coach blocca il flusso maieutico o lo dirotta dove lui pensa che il coachee debba andare, rompe la relazione di fiducia reciproca.

Nel coaching un altro aspetto basilare è quello di non dare risposte, ma aiutare a formulare domande più precise che lavorino in modo generativo nella testa e nel cuore del coachee.

Anche il buon compagno di arrampicata dovrebbe essere così, perché dare consigli ad una persona che ha caratteristiche fisiche, predisposizioni mentali, potenzialità e paure diverse dalle proprie può essere controproducente. La persona in questione può sentirsi incapace di chiudere il tiro, piuttosto che di raggiungere l’obiettivo, solo perché il coach o l‘assicuratore sono partiti dal presupposto che le proprie caratteristiche e predisposizioni fossero le uniche possibili, o le migliori, per raggiungere quel traguardo.

Bisogna invece porre le domande che sono più utili a chi deve arrivare all’obiettivo, per scoprire quali sue risorse possiede e può mettere in campo, uscendo dal proprio schema mentale, empatizzando con l’altro ma senza “perdersi” nell’altro, considerando la persona nella sua totalità.

Al centro infatti non c’è la performance, ma la persona nella sua interezza, con tutte le sue sfaccettature.

In arrampicata possiamo avere a che fare con la persona più esile e minuta, sulla quale non scommetteremmo nulla, che potrebbe invece mettere in campo la tecnica, la tenacia, o altre risorse meno visibili dall’esterno, che potrebbero portarla a raggiungere ottimi risultati. Allo stesso modo potremmo trovarci di fronte un coachee con un obiettivo legato alla produttività o alla leadership, ma se ci sono blocchi interni che non vengono considerati, il traguardo finale potrebbe non venire mai raggiunto.

Come sostiene Gallwey nella sua teoria dell’Inner Game, perché il potenziale possa esprimersi generando una buona prestazione, vanno ridotte le interferenze, interne o esterne che siano. Egli sostiene che “l’avversario che si nasconde nella nostra mente è molto più forte di quello che troviamo dall’altra parte della rete”, e anche in arrampicata l’assetto mentale è importante tanto quanto quello fisico, se non di più.

La mobilità può essere limitata, nel coaching come in arrampicata, da tre elementi.

Le convinzioni limitanti, che non vanno estirpate, ma arricchite da convinzioni supportive, le quali portano a mobilitare le risorse al fine di ottenere buoni risultati.
Queste generalmente sono esterne alla persona. Pensieri come “questa via è troppo dura per me”, “questo obiettivo è per me irraggiungibile, non sono portato per questa cosa” sono convinzioni limitanti, che si possono affrontare sondando i pensieri che le hanno create, smontando ciò che è frutto di credenze senza fondamenta e aiutando a consapevolizzare le risorse utili possedute.

Le interferenze interne, che sono forse quelle più difficili da gestire, poiché riguardano la parte più sensibile della persona, sono costituite da sensazioni, emozioni e sentimenti.

È perciò necessario che il coach, come chi fa sicura, crei un ambiente protetto, garantito dalla relazione facilitante, in cui il coachee o chi scala si senta libero di esprimere le proprie paure, gioie e percezioni.

In parete sei sola, puoi contare solo sulle tue forze e risorse, ma sapere che c’è una persona con la quale puoi condividere la tua paura, urlarla solo per buttarla fuori e farsene qualcosa che non sia tenerla dentro, aiuta a gestirla e ad affrontarla. Allo stesso modo il coach può creare una relazione favorevole al coachee per esprimere emozioni e sentimenti, di modo che non diventino un ostacolo invisibile ma potente al raggiungimento dell’obiettivo.

Riconoscere e gestire positivamente le emozioni fa parte dell’intelligenza emotiva, concetto ideato da Goleman negli anni ’90.

Infine ci sono i blocchi del pensiero, caratterizzati generalmente da un forte utilizzo del pensiero verticale, logico-razionale e sequenziale.

Questo tipo di pensiero porta a vedere bianco o nero, al giudizio immediato, mentre sia in arrampicata che nei percorsi di coaching è utile stimolare il pensiero laterale, che attiva la creatività ed apre all’esplorazione di altre possibilità non contemplate fino a quel momento.

Su una via si potrebbe avere un blocco e iniziare a ragionare solo con il “cappello” dei rischi e degli aspetti negativi, per dirla utilizzando la metafora dei “Sei cappelli per pensare” ideata da De Bono, incentrandosi per esempio sul fatto di non avere abbastanza forza per affrontare un determinato passaggio, o per un coachee di non avere abbastanza energie per affrontare un problema.

Mentre è utile uno stimolo che inviti a riflettere e agire indossando il cappello delle opportunità e della positività, che permette di apprezzare il fatto di essere leggeri e agili anche se meno forti, o di avere calma mentale anche se poche energie. Cambiare prospettiva, saltare dal un cappello all’altro, permette di non incagliarsi e di restare mobili e aperti mentalmente. Se la persona si sente accolta, ascoltata e accudita queste resistenze alla mobilità diventano normale parte del processo e non lo arrestano.

Un altro parallelo interessante è nel concetto di coachability: come in un percorso di coaching è indispensabile che il coachee sia consapevole e predisposto ad impegnarsi ad utilizzare le sue risorse per raggiungere i risultati attesi, anche in arrampicata è fondamentale avere la predisposizione a mettere in campo tutte le proprie qualità per raggiungere un obiettivo, sapendo che nessun altro potrà sostituirsi allo sforzo personale.

La buona riuscita di un percorso di coaching è anche strettamente collegata ad una buona qualità della relazione che si instaura tra coach e coachee, infatti se la relazione è buona i contenuti passano in modo fluido e proficuo, mentre se è di cattiva qualità, il contenuto passa in secondo piano e non è generativo.

In arrampicata la relazione tra chi fa sicura e chi scala è altrettanto importante, invero se chi scala non ha fiducia nel compagno ne conseguono aumento della paura e peggioramento e della concentrazione sulle proprie potenzialità, dunque raggiungere l’obiettivo diventa più difficile e faticoso.

La relazione buona e facilitante si costruisce su quattro aspetti basilari: l’accoglienza, l’ascolto attivo, l’alleanza e l’autenticità.

In entrambi i campi la relazione è alla pari, mentre il contenuto appartiene al coachee, come a chi sceglie il proprio progetto in arrampicata, ma con una distinzione di ruoli e responsabilità: il coachee e chi scala hanno la responsabilità di mettersi in campo per decidere il proprio percorso e attivare le proprie risorse, mentre il coach, come chi fa sicura, ha la responsabilità della struttura e di accompagnare l’altro in modo non giudicante, che stimoli e porti consapevolezza all’altro riguardo le proprie potenzialità.

Il silenzio accompagna nella relazione facilitante in modo non passivo né vuoto, ma evolutivo.

È infatti funzionale al mantenere la persona nel “qui ed ora”, favorisce l’ascolto e l’autoascolto, facilita la riflessione e la consapevolezza e mantiene nel kairos.

È importante per il coach saper utilizzare il silenzio nel momento adatto, capire quando il coachee ha detto una cosa che potrebbe aver bisogno di sentire risuonare dentro di sé per un attimo, quando magari il ritmo si è fatto troppo incalzante e il coachee ha bisogno del silenzio per riflettere, quando ha detto qualcosa che sembra significativo e che il silenzio può lasciar depositare.

Anche quando si arrampica è importante saper distinguere i momenti in cui il compagno ha bisogno di essere incoraggiato, e quando invece continuare a parlare lo carica di tensione. Il silenzio è necessario per ascoltarsi, per riflettere, per immaginare il movimento successivo e decidere come muoversi.

Un altro tratto cruciale sia nel coaching che in arrampicata, se non il cuore di entrambe le attività, è lo sviluppo del potenziale, un insieme ricco e vario di elementi.

La bellezza dell’unicità di ognuno risiede proprio nella varietà e nella forza che può scaturire risvegliando e sfruttando ognuna di queste componenti per il raggiungimento di un obiettivo.

La complessità dell’essere umano si rivela in tutta la sua potenza, limiti e punti forti, e la cosa più affascinante, del coaching come dell’arrampicata, è che lavorando su tutti questi aspetti, stimolandoli e prendendone consapevolezza si possono ottenere risultati soddisfacenti che portano mutamenti positivi nella vita di chi si mette in campo.

In entrambi non ci sono avversarsi contro cui competere, l’unica sfida è con se stessi, con la propria capacità di mettersi in gioco, sbagliare, sperimentare, cambiare prospettiva, tutto improntato al raggiungimento di un obiettivo che ci si prefigge.

Un altro aspetto molto bello è che in entrambi i campi, dell’arrampicata e del coaching, l’obiettivo è molto personale ed è mobile.
Non è fisso, immutabile e non incasella la persona, è a sua misura, può mutare lungo il percorso a seconda del momento di vita che la persona si trova a vivere e delle energie che ha a disposizione in quel momento.
E i passaggi per raggiungerlo sono simili: ci si prefigge un obiettivo, si prende atto della situazione attuale in cui ci si trova e delle risorse che si hanno a disposizione, si elabora un piano di sviluppo del potenziale attraverso il quale si progredisce, si cresce, si fanno verifiche lungo il percorso e infine si definisce un piano d’azione per muoversi concretamente, anche con piccoli passi, verso l’obiettivo.

Ciò che personalmente mi appassiona del coaching e dell’arrampicata è il fatto di essere in continuo movimento, la sfida con se stessi, il cambiamento, la tensione a sviluppare tutti i talenti che si possiedono senza che nessuno resti inascoltato, la soddisfazione impareggiabile data dal raggiungere anche con fatica qualcosa che prima di muovere il primo passo sembrava irraggiungibile.

Il coraggio dell’andare oltre la propria comfort zone, con intenzione, ascolto di sé, caparbietà e consapevolezza.

E non da ultimo il fatto che il viaggio è personale ma non si fa da soli. C’è qualcuno al tuo fianco con cui instauri una relazione di fiducia e supporto, che non crea dipendenza, che non tira e non spinge, ma trasforma le potenzialità in risorse, condivide, stimola, e fa fruttare l’unicità di ognuno in tutta la sua potenza generativa.

 

Maria Vender

Insegnante, Coach professionista specializzata in ambito pedagogico
Lovere
mery.9.vender@gmail.com

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