Categoria: La Giustizia per il Coachee: una Virtù e le sue Forme

Categoria: La Giustizia per il Coachee: una Virtù e le sue Forme

La Giustizia per il Coachee: una Virtù e le sue Forme

La Giustizia per il Coachee: una Virtù e le sue Forme

Nella sezione del testo ‘L’Essenza del Coaching’ (Pannitti, Rossi, 2012) dedicata al tema delle potenzialità secondo la Psicologia Positiva, vi è la trattazione delle 6 Virtù Universali (High Six) che, secondo Seligman e ricercatori, sono state individuate come fattori comuni al genere umano a livello trans-culturale, e delle relative potenzialità che ne contraddistinguono il manifestarsi in termini di comportamenti. Con il presente articolo, mi addentro tra alcune delle innumerevoli sfumature della virtù della Giustizia, un argomento che, dalla mia esperienza, fa spesso vibrare le corde più profonde del Coachee, in quanto fortemente ancorato a personali visioni valoriali.

Le potenzialità che caratterizzano tale virtù (cittadinanza, imparzialità, leadership) “[…] stanno alla base di una sana convivenza e della vita sociale di una comunità” (Pannitti, Rossi, 2012); quindi, un atto contrassegnato da Giustizia implica che il suo verificarsi avvenga comunque all’interno di un contesto a più voci nel quale possa trovare un proprio riscontro di validità e accettazione. E l’espressione stessa di ‘sana convivenza’, dal mio punto di vista, ben rileva uno stato di benessere più volte ricercato dai Coachee nel momento in cui le loro storie implicano rapporti deleteri scatenatisi da eventi ritenuti ‘ingiusti’ e dai quali si dipanano malesseri duraturi e faticosamente gestibili.

Una prima forma di ‘Giustizia’ che ho sperimentato in sessione assume i tratti di un’etica non meglio identificata dal Cliente, una sorta di moralità che è stata tradita o dove le aspettative valoriali sono state mal interpretate (es. “non avrebbe dovuto farmi una cosa del genere”, “non è giusto comportarsi in questo modo”, “non posso tollerare atteggiamenti di questo tipo”), per cui il Coachee si sente come legittimato a estraniarsi subito dalla sua situazione per ergersi “a giudice” di una sentenza diretta a trovare la causa del suo male in un qualcuno o qualcosa al di fuori del proprio controllo. L’intensità con cui spesso si accompagna il tono accusatorio nasconde un’angoscia, una frustrazione, un dolore che fatica a verbalizzarsi, per cui lo scaricare all’esterno “l’ingiustizia” subita rinforza una posizione impersonale che può sfociare anche nel ruolo della vittima.

Il rischio è che la difficoltà di non riuscire a vedersi “al di sopra” o “al di fuori” della propria situazione possa portare il Cliente a parametrare il suo benessere o la soluzione stessa del problema in base a come si possa comportare una persona “chiamata in causa” o quando le cose cambieranno in meglio, perché è giusto che sia così (es. “ti assicuro che se lui/lei smettesse di dire o fare, le cose si risolverebbero subito”, “non mi merito una cosa del genere e non ha senso sbattersi per cambiare le cose”, “ci ho pensato, ma non trovo giusto che debba essere io a dover fare il primo passo quando lui/lei se ne frega”). L’escludersi dalla causa del problema, al di là di colpe oggettive o mancanze dichiarate da attori esterni e in situazioni lontane dal ‘qui e ora’ della sessione, può portare a forti resistenze dettate da imparzialità, attraverso un “[…] processo tramite il quale le persone determinano cosa è moralmente giusto, sbagliato, proibito” (Pannitti, Rossi 2012).

In questo modo, da un lato, aumenta nel Coachee la capacità di giustificare una presa di posizione che lo tutela dal vedersi immischiato in una situazione che lo coinvolge solo come vittima o spettatore e non da protagonista, dall’altro, diminuisce la volontà di mantenere un giudizio obiettivo sul problema e sulle relative cause: “[…] chi subisce ingiustizia si sente nel diritto di muovere guerra per la giustizia. In questo caso non è l’intenzione ingiusta a motivare la guerra, ma l’ingiustizia patita” (Natoli, 1997).

Una seconda forma di ‘Giustizia’ non mette in discussione un ipotetico “altro” quale bersaglio di critiche o invettive ma dà risalto al proprio essere nel giusto, per cui il Coachee parte già dal presupposto di avere tutte le ragioni di vivere uno stato depotenziante, che lo possa tutelare dal prendersi la responsabilità di doversi mettere in discussione per un miglioramento di cui non vede necessità (es. “non posso farci niente, basta”, “non c’è mai giustizia in queste cose, inutile che stiamo qui a parlarne!”, “io non mi sarei comportato in quel modo, poi gli altri facciano come credono, a me non interessa”). Tale modo di (non) agire “[…] provoca effetti dannosi quando induce ad autopunirsi con uno stato d’animo negativo per il fatto di non veder traccia di quella giustizia che così futilmente si esige. […] il comportamento autodistruttivo non è rappresentato dall’esigenza della giustizia, bensì dalla paralisi che può risultare dal dato di fatto che non esiste giustizia” (Dyer, 2010).

In questo circolo vizioso, la visione che manifesta il Coachee sul caso di cui è narratore appare come ineluttabile, per cui più le domande del Coach sono mirate ad ampliarne il punto di vista e maggiori possono presentarsi gli scenari inesorabili dai quali non è possibile fuggire; pertanto, all’aumentare del disagio del Cliente, che si vede sempre più focalizzato in presa diretta sul suo problema, può capitare che il Coach diventi “il salvatore” designato sul quale scaricare vari tentativi di delega per uscire dal confronto nella maniera “meno dolorosa” possibile.

Una terza forma di ‘Giustizia’ fa appello al tema della ‘ricompensa’ ovvero dell’agire in prima persona e in maniera responsabile verso l’ottenimento dei propri scopi, ma con l’obiettivo di averne un ritorno in termini affettivi, professionali o anche economici, dove il fine giustifica pienamente i mezzi; quindi, se tale dinamica ideale non si realizza secondo i piani predefiniti, ciò significa che qualcosa non ha funzionato a dovere, per cui il non ricevere “quanto dovuto” viene bollato come “ingiusto”, attivando la creazione di più alibi pur di non identificare una propria mancanza. Il Coachee sembra farsi carico delle proprie responsabilità fino a dove il suo modo di vedere la situazione determina l’intraprendere “un’azione giusta” che lo pone quasi in uno stato di successiva attesa passiva, per cui, dopo aver dato, aspetta “il suo meritato premio” (es. “ti sembra giusto che mi debba sbattere in questo modo per non ottenere nulla?!”; “era il minimo che lui/lei mi dovesse una risposta, ma così non è stato!”; “che senso ha agire per il suo bene, se poi non mi vedo corrisposto/a!?” ).

Una dinamica di questo tipo può portare a un irrigidimento di posizione per il quale vedere il problema da un altro punto di vista diventa per il Coachee come una spinta (auto) imposta a doversi riconoscere come “colpevole” di un atto mancato, quindi all’essere “in difetto” nei confronti di eventi, cose o persone verso i quali non si hanno debiti, pertanto meglio restare ben saldi nella propria “giusta” dimensione. Inoltre, “[…] se quello che è giusto, è giusto, puoi giustificare un tuo comportamento vendicativo, manipolatorio, poco piacevole. Se i conti devono tornare, la vendetta diventa giustificabile. Come ti senti in dovere di ricambiare ogni favore, così ti senti in dovere di rendere la pariglia” (Dyer, 2010). Così facendo, il Coachee tende a costruirsi una griglia interpretativa, riportando riflessioni e ragionamenti all’interno di un sistema di giustizia personalizzato, da cui emettere sentenze che giustifichino, nel bene e/o nel male, prese di posizione, irresponsabilità e atteggiamenti difensivi rispetto alla gestione del suo problema.

Al di là delle molteplici forme nelle quali la Giustizia può manifestarsi tra le parole del Coachee, nel momento in cui il racconto del Cliente comporta un orientamento valoriale che caratterizza errori personali passati, una valutazione imparziale di situazioni e persone o eventuali resistenze proiettate su azioni future, dalla mia esperienza, il Coachee, oltre a dichiarare una sua visione soggettiva su quanto narrato, sta anche implicitamente decidendo di seguire una linea di condotta determinata da un percepito, spesso plasmato da esperienze che possono portare a rivivere eventi anche dolorosi.

Il tema della Giustizia, e di quanto da essa può derivare come giusto o ingiusto, abbraccia l’etica, la morale, il dare e il ricevere e, soprattutto, ciò che per ogni individuo rappresenta il Bene, verso se stessi, gli altri, la comunità e la propria dimensione spirituale. Pertanto, dal mio punto di vista, se il Coachee decide di intraprendere un’azione solo sulla base di un criterio selettivo tra “il giusto” e “l’ingiusto”, trovo assai produttivo inoltrarsi, almeno un po’, sotto la superficie di termini che, se all’apparenza possono anche denotare una visione chiara della propria situazione, a volte, possono rivelarsi indicatori di ragionamenti dettati più da abitudini di cui non si è consapevoli che da riflessioni concrete dalle quali partire e non arrivare.

Non a caso, parlando di Virtù e di Giustizia, vengono alla mente anche Prudenza, Fortezza e Temperanza quali Virtù Cardinali, ovvero i pilastri che, nella religione cattolica, rappresentano la via per eccellenza dedicata al Bene, dove la Giustizia funge quasi da metro di paragone (morale) a cui appellarsi quando sentiamo di agire, per l’appunto, “in virtù” di un sentire intimo che fa perno su valori, esperienze e ragioni profonde, da non trascurare nei momenti in cui i propri parametri faticano a comprendere la realtà interiore. Del resto, secondo Platone, “[…] tale virtù è superiore alle altre perché fa sì che tutti gli elementi dell’animo umano funzionino in armonia a che ogni componente psicologica faccia la sua parte e la faccia bene” (Hackney, 2010).

 

Federico Polidori
Training Specialist, Trainer, Life Coach
Cologno Monzese (MI)
federicom18@libero.it

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