Categoria: Leader Coach: utopia o realtà?

Categoria: Leader Coach: utopia o realtà?

Leader Coach: utopia o realtà?

Premessa

Il ruolo del Leader è cambiato enormemente negli ultimi anni: tutte le organizzazioni, dalle grandi alle piccole imprese, si trovano ad affrontare una nuova “guerra dei talenti”, espressione coniata da McKinsey tempo fa e tornata in auge nel post pandemia. La filosofia del “si vive una sola volta” ha infatti dato il via ad un processo, ormai irreversibile, ribattezzato oltreoceano come “the Great Resignation”. Dopo un periodo di profonda incertezza, chi più chi meno ha ridefinito le proprie priorità, tanto a livello professionale quanto sul piano personale. E così la ricerca di flessibilità, di ambienti meno tradizionali e di attività in linea con il proprio sé, pare sia diventata un must have.

 

Come affrontare la sfida?

In questo scenario, i Leader che desiderano gestire il cambiamento in atto, devono essere pronti a mettere da parte vecchie modalità e strategie, evolvendo verso una dimensione sempre più umana della leadership. Al giorno d’oggi, su più fronti, si sente infatti parlare di Leader Coach. Ma non è una novità, esiste da tempo. Già negli anni ’70 Hersey e Blanchard, con il loro modello della Leadership Situazionale, affermarono che non esiste un approccio valido in senso assoluto; il Leader deve adottare uno stile diverso a seconda di competenza e motivazione di ciascuna risorsa, per poi decidere con quali strumenti lavorare tra guida (stile direttivo) e relazione (stile supportivo). Qualche decennio dopo, riprendendo lo studio di Hay e McBer, vennero identificati da Goleman sei diversi stili di leadership: un Leader efficace sarà dunque in grado di usarli alternativamente, a seconda del bisogno e nella giusta misura. Di seguito un sunto.

 

Il repertorio della leadership

 

1 – Stile visionario

Mira a condividere gli obiettivi, la mission aziendale, per far sì che si crei una sorta di “sogno condiviso” nelle persone. Il Leader visionario è colui che, specie nei momenti di cambiamento, riesce a identificare e trasmettere una direzione chiara alla sua squadra.

2 – Stile democratico

Il Leader democratico è in grado di valorizzare i propri collaboratori, coinvolgendoli nelle decisioni aziendali. Il punto forte di questo stile è insito in un’operatività partecipativa, che tende a responsabilizzare ogni persona verso il raggiungimento degli obiettivi, ottenendo così spunti preziosi dal gruppo.

3 – Stile coaching

L’obiettivo principale è quello di creare una connessione tra la mission dell’azienda e le aspirazioni del singolo. Il Leader Coach mira a far emergere le potenzialità di ogni membro del team, per migliorarne le performance e incentivarne la crescita, raggiungendo al contempo gli obiettivi organizzativi.

4 – Stile affiliatore

Perfetto per creare armonia in un gruppo di lavoro, questo stile si focalizza sulla relazione. È un approccio che tende a prevenire e ad evitare i conflitti tra le persone. Particolarmente adatto in quelle situazioni di stress e/o crisi in cui la motivazione vacilla, a discapito delle performance.

5 – Stile battistrada

Partendo da obiettivi sfidanti, tale approccio richiede perfezione e rapidità dai propri collaboratori. Il rischio di minare le dinamiche di gruppo e di farlo sentire inadatto, tuttavia, è piuttosto concreto. La presenza di una squadra affiatata e competente diventa presupposto essenziale affinché questo stile porti i suoi frutti.

6 – Stile autoritario

Crea risonanza dando direttive chiare in situazioni di emergenza, placando così eventuali malumori. Da adottare in presenza di una crisi, per dare il via ad una svolta o affrontare collaboratori problematici. Diversamente, un approccio così autoritario, porta alla creazione di un clima teso e di generale insoddisfazione, notoriamente controproducente.

Lo stesso Goleman paragona i sei stili a un set di mazze da golf nella sacca di un giocatore; tiri diversi richiedono mazze diverse, per cui il vero professionista le gestisce tutte altrettanto bene. Da questo studio, però, lo stile meno usato era risultato proprio il Coaching. Sarà che, per dirla alla Myles Downey, Management e Coaching sono poco compatibili? Nel suo libro Effective Coaching”, l’autore afferma: “quando si assume una posizione di potere in una relazione, il conflitto di interesse è inevitabile”. In tal senso, un manager non può essere un Coach nel vero senso della parola, perché viene meno uno degli elementi della geometria della relazione, ovvero la partnership.

Tuttavia, ora più che mai, è essenziale mantenere e far crescere il talento delle persone in azienda. È qui che una leadership orientata al Coaching diventa arma vincente per rispondere a questa necessità. Occorre perciò gestire la propria squadra secondo un paradigma che permetta di generare engagement ed innovazione, attraverso relazioni fondate sulla fiducia, andando oltre lo stile “comanda e controlla”. Quando il manager indossa il cappello da Coach, si pone infatti in una logica di interdipendenza rispetto ai suoi collaboratori, facilitando così l’emergere di intuizioni e soluzioni in una logica bottom up.

 

La magia di una favola

Qualcuno avrà letto, forse da bambino, La gabbianella e il gatto” di Sepúlveda. Questo libro narra la storia di una gabbiana che per sbaglio finì in una macchia di petrolio scaricato nel mare. Facendo fatica a volare, decise di fermarsi su un balcone di una casa vicina, abitata dal gatto Zorba. Prima di morire, la gabbiana depose un uovo, facendo promettere al gatto che non l’avrebbe mangiato e che se ne sarebbe preso cura, insegnando al piccolo come volare. Quando l’uovo si schiuse, nacque Fortunata, e i gatti del quartiere fecero di tutto per mantenere la promessa. Senza successo. Questo fino al giorno in cui smisero di insegnarle le più svariate tecniche di volo. Accompagnata in cima ad un campanile, in una notte tempestosa, Fortunata non fece altro che gettarsi, battere le ali, imparando naturalmente a volare. Questa favola, con la sua leggerezza, ci insegna ciò che sta alla base di una relazione facilitante: qui c’è alleanza (aderire, senza se e senza ma, al progetto di Fortunata), ascolto (da una distanza/vicinanza di sicurezza, tale da generare disorientamento positivo), accoglienza (essere aperti alla diversità, dando il benvenuto alla sua unicità). Per non parlare della fiducia.

 

Anche il cinema insegna

Nel 2009 uscì il film record d’incassi The Blind Side”. Tratto da una storia vera, la pellicola ripercorre le vicende di Big Mike, ragazzo adolescente afroamericano, sostenuto dai genitori adottivi nel realizzare il suo potenziale. In particolare, a colpirmi è stata una scena in cui sono coinvolti l’allenatore della squadra di football e la madre del protagonista. Da un lato abbiamo Burt, l’allenatore, che manca di empatia, enfatizza gli errori, fatica a comprendere i sentimenti del ragazzo. Dall’altro Anne che, con tutt’altro stile, riesce a far connettere il figlio con i suoi valori, le sue risorse, influenzandone positivamente la performance. Per farla breve, nel suo approccio troviamo caratteristiche riconducibili allo stile Coaching, utili a trasformare la “giovane ghianda in una solida quercia”.

James Hillman, psicologo analista junghiano, sosteneva infatti che ognuno di noi possiede un daimon, un talento unico e innato, che ciascuno è chiamato a realizzare nella propria vita. Hillman ha utilizzato per descrivere questo concetto proprio la metafora della ghianda, che è destinata a diventare una quercia e non un altro albero. Sarà quindi onere del Leader Coach assolvere a questa funzione, ovvero far emergere i talenti individuali, affinché siano agiti al servizio della mission organizzativa, fornendo a quella ghianda tutto il nutrimento necessario per diventare una florida quercia. Ciò richiede un radicale cambio di focus: dal colmare i gap, al mettere in luce i punti di forza altrui. Questo significa saper valorizzare l’unicità, l’eccellenza, il talento specifico del singolo, senza pretendere di aggiustare o di migliorare le persone in quelle aree dove mancano competenze o attitudini. Il che implica essere anche in grado di riconoscere le competenze dei collaboratori, ai quali viene richiesto di agire in uno spazio di autonomia responsabile, evitando di demonizzare l’errore, facilitandone la crescita.

A ben pensare, questa metodologia così familiare nel lessico organizzativo odierno, tra le sue origini da una pratica applicata da Socrate più di 2.500 anni fa: la maieutica. Questa altro non è che l’esercizio del dialogo: chi pone le domande, spinge l’altro verso consapevolezza e attivazione, attingendo alle proprie risorse. Responsabilizzante, no? Ed è proprio qui che gli strumenti del Coaching quali le domande, l’ascolto e il feedback, diventano chiave di volta per abitare la complessità delle aziende contemporanee.

 

L’arte di fare domande

La tecnica delle domande non va sottovalutata: sono le domande, piuttosto che le istruzioni o i consigli, a generare presa di coscienza e responsabilità. Anche le neuroscienze lo hanno dimostrato: il nostro cervello è più stimolato quando si chiede, non quando si danno soluzioni. Un buon Leader Coach dovrà quindi essere capace di costruire domande efficaci, in base al fine. Se l’intento è esplorare, la forma aperta è la più indicata, perché spinge a far luce in quegli angoli che solitamente restano nell’ombra. Se invece occorre fare focus o chiedere conferma, sarà più utile una domanda chiusa. Come appreso in questi mesi, le domande potenti sono un mito. È potente il domandare, nell’ottica di favorire l’auto-osservazione della persona. Ciò è possibile solo se struttura, tono e contesto di una domanda, consentono all’altro di elaborare le informazioni su più piani, temporale, cognitivo, emozionale, etc., stimolandone la mobilità. Perciò via libera a domande semplici, dirette, brevi… come quelle dei bambini. Il resto verrà da sé.

 

Ascoltare con il cuore

L’ideogramma cinese per ascoltare la dice tutta:

  • Orecchio = ciò che usi per udire
  • Re = presta attenzione come se l’altra persona fosse un re
  • Dieci e occhio = presta attenzione come se avessi dieci occhi
  • Uno = ascolta con attenzione individuale
  • Cuore = ascolta con tutto il cuore (oltre che con orecchi e occhi)

 

Per sentire basta solo usare l’udito, è un atto meccanico. Per ascoltare, è invece fondamentale comprendere fatti, opinioni, sentimenti altrui; è quindi necessario mettersi nei panni dell’altro, capirne il punto di vista. Non a caso, la comunicazione è un’opera di traduzione, dove verificare cosa l’altro abbia compreso è importante. E per farlo, il Leader Coach può attingere al feedback d’ascolto. Tra le tecniche, troviamo: rispecchiamento (restituire esattamente quanto detto dal collaboratore, parola per parola); sintesi (estrapolare gli elementi più importanti di un discorso); focalizzazione (ritornare su una singola parola, pregna di significato); riformulazione (usare parole diverse, senza alterare il senso del discorso); restituzione (rimandare il proprio percepito).

 

Il modello GROW per il feedback

In questo scritto non poteva mancare Sir John Whitmore, papà di tutti noi (coach alle prime armi e non). Nel suo bestseller Coaching”, l’autore ha condiviso una mappa utile per gestire efficaci conversazioni di feedback, riprendendo il modello che lo ha reso tanto celebre.

  • Cosa è successo?
  • Cosa hai appreso?
  • Come lo utilizzerai in futuro?

Queste sono tre domande che, a suo avviso, rendono generativo il feedback. Il tutto accompagnato da una semplice regola: il collaboratore condivide per primo, a seguire il manager. Potremmo dire che anche il feedback, essendo orientato alla crescita, è un tipo specifico di conversazione di Coaching. In particolare, il modello GROW aiuta il collaboratore a ragionare su dove deve arrivare (goal), dove si trova ora (reality), quali alternative ha per muoversi (options) e, tra le diverse possibilità, quale scegliere (will).

Vediamo come può essere usato, concretamente, anche da un manager:

G = porre domande relative all’obiettivo, così da stabilire l’intenzione e il contesto della discussione di feedback, gettando le basi per uno scambio produttivo.

R = stimolare la persona nell’identificare i risultati positivi ottenuti e i punti di forza agiti, creando così sicurezza di sé. Questa fase è fondamentale anche quando gli obiettivi sono parzialmente raggiunti. In tal caso, è sempre bene riconoscere gli sforzi profusi, sottolineando cosa il collaboratore ha fatto bene. Niente giudizi negativi o critiche.

O = instaurare un ambiente di apprendimento sicuro, capace di stimolare la creatività. In questo step, dare alla persona il tempo necessario per riflettere su cosa e come vorrebbe cambiare o migliorare. Facile a dirsi, difficile a farsi, a causa del bagaglio di presupposizioni limitanti che ci portiamo dietro (e di cui siamo a mala pena consci). In presenza di interferenze persistenti, ad esempio, è possibile usare domande “E se…”. Con questo processo, che aggira temporaneamente la censura della razionalità, si lascia campo aperto al pensiero laterale. L’obiettivo non è trovare la soluzione giusta, ma elencare quanti più corsi d’azione possibili. A partire da qui, saranno poi selezionati i passi da compiere e le relative azioni.

W = porre domande per rinforzare l’apprendimento e definire i next steps. Il manager stimola il collaboratore nel definire un action plan, assicurandosi che vi sia chiarezza riguardo a priorità, tempistiche ed impegno.

 

Per concludere…

Nel tentativo di rispondere al quesito iniziale, direi che c’è un paradosso nel Coaching applicato alla leadership. Basti pensare che un manager ha voce in capitolo rispetto alla definizione degli obiettivi o alla valutazione delle performance, influenzando promozioni ed opportunità di crescita dei propri collaboratori. In questi termini, non posso che essere concorde rispetto all’affermazione di Downey. Tuttavia, l’incontro tra Management è Coaching non è utopia: i Leader possono, anzi dovrebbero, adottare il Coaching come stile. Non è una moda, ma una necessità. Questo perché, utilizzare gli strumenti di questo approccio, incoraggia l’altro ad individuare soluzioni autonomamente, a pensare per conto proprio; si diventa capaci di gestire l’imprevedibile, senza essere guidati. È il cuore dello sviluppo. Certo, non è per tutti e neanche per tutte le occasioni, motivo per cui si allena la leadership situazionale. Ma, quando succede, si diventa testimoni di una magia! Perché, citando Galilei, è solo indossando il cappello di Leader Coach che “non insegniamo qualcosa ad un uomo, ma lo aiutiamo a scoprirla dentro di sé”. Ed io, occupandomi su più fronti dello sviluppo altrui, non posso che augurarmi di diffondere questo meraviglioso metodo dentro e fuori l’organizzazione.

 

Maria Meles

HR Development Center Coordinator | Business Psychologist | Professional Coach
Milano
miriam.meles@yahoo.it

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