
L’errore: preludio del fallimento o occassione per una possibile evoluzione personale?
Quando ci è stato chiesto di scrivere una tesina su un tema che riguardasse il Coaching, entrambi abbiamo pensato che il modo migliore per chiudere questo bellissimo percorso fosse trovare un tema che ci permettesse di guardarci dentro ancora una volta (lo abbiamo fatto spesso in questo periodo) e che ci mettesse di fronte ad una nostra paura, per cogliere un’opportunità di crescita. È così che siamo arrivati alla conclusione che nulla ci stava così a cuore come il tema dell’Errore, che tanto ci aveva colpito nella primissima lezione del corso di Professional Coaching!
Impresso nero su bianco, su una delle ultime slide di quella giornata, c’era scritto: “l’errore è funzionale al processo di apprendimento”! Dunque, l’errore fa parte del nostro percorso di vita, non va evitato a tutti i costi come spesso ci abituano a pensare fin da bambini!
Facile, no? Ma allora perché è un concetto così difficile da mettere in pratica?
Insomma, leggere le parole di quella slide, così semplici e chiare, ci ha fatto soffermare sull’importanza di questo tema e sulla differenza che può fare, nel coaching e nella vita, avere un approccio positivo all’errore piuttosto che un approccio negativo.
Prima di qualsiasi altra cosa, abbiamo cercato la definizione che viene data nella lingua italiana a questa parola (vocabolario Treccani):
erróre s.m., dal latino error -oris (da errare). 1) Letteralmente indica l’andar vagando, peregrinazione, vagabondaggio. 2) Indica anche lo sviarsi, l’uscire dalla via retta, cioè l’atto di allontanarsi, col pensiero o con l’azione o altrimenti, dal bene, dal vero, dal conveniente. In particolare, deviazione morale, fallo, colpa, peccato.
Dunque, fare un errore dopotutto vuol dire muoversi, modificare un pensiero, spaziare da un’idea ad un’altra, viaggiare (in senso metaforico). In effetti, se ci pensiamo bene, il fallimento, gli errori, le cadute…non sono componenti imprescindibili di qualsiasi processo di viaggio, cammino e cambiamento? Troppo spesso consideriamo l’errore solo con il suo significato di “deviazione morale, colpa, peccato” e lo vediamo come qualcosa da evitare, da “demonizzare”, perché ci allontana da ciò che è giusto.
L’errore va evitato! L’errore va punito! Ho commesso un errore, dunque non vado bene! Ho sbagliato, chissà cosa penseranno gli altri di me!
Chi di noi non ha pensato, almeno una volta, una di queste frasi nella propria vita?
In un mondo sempre più caratterizzato dalla ricerca del successo a tutti i costi, da una competizione sfrenata e dalla necessità di raggiungere i risultati in fretta, l’errore, semplicemente, NON È CONTEMPLATO!
Viviamo in una società che ci ha convinti che sbagliare è la strada verso l’insuccesso, tanto che non ci concediamo la legittima possibilità di farlo. L’ambiente scolastico, i nostri genitori, ci hanno fatto crescere con questa certezza, che ci portiamo avanti anche in età adulta.
Ma quali sono i veri motivi all’origine di questa visione negativa dell’errore che, alla lunga, genera sofferenza e difficoltà ad apprendere e a cimentarsi in nuove esperienze?
La paura del fallimento è sicuramente una delle cause che ci porta a rifiutare l’errore.
La paura di fallire è innanzitutto una paura che arriva all’improvviso, prende il sopravvento su di noi e ci impedisce di muoverci. Si scatena nel momento in cui dobbiamo intraprendere un’azione che consideriamo potenzialmente rischiosa. Cominciamo ad immaginarci tutte le cose orribili che potrebbero accadere nel caso in cui non dovessimo raggiungere il nostro obiettivo, tanto che preferiamo non fare nulla!
La paura del fallimento ha un impatto diverso da persona a persona e ha spesso a che fare con le esperienze affettive, educative e relazionali vissute da bambini. È frutto del nostro sistema di valori, deriva dalle nostre credenze: ciò che per una persona rappresenta un’esperienza di fallimento, per un’altra può rappresentare invece un’occasione di crescita.
Questa paura può essere collegata a molte cause, ad esempio l’avere avuto genitori critici o poco supportivi, cosa che fa sì che molte persone, in età adulta, si portino dietro sentimenti negativi e scarsa autostima.
Ma se permettiamo alla paura di fermare i nostri progetti, rischiamo di perdere per strada numerose opportunità e ci priviamo della possibilità di esplorare e di evolverci.
Dobbiamo convincerci che è impossibile affrontare la vita senza provare una qualche forma di fallimento. Ma come per ogni esperienza, possiamo decidere noi che valore e che significato attribuirgli. Possiamo scegliere di vedere il fallimento come “la fine del mondo”, come il banco di prova della nostra incapacità, oppure possiamo guardarlo come un’occasione di apprendimento e portarci a casa la “lezione” che ci ha insegnato.
Un altro fattore che è spesso motivo del nostro rifiuto dell’errore è l’auto-giudizio, che prende sempre forma dai sistemi di regole, credenze e valori che accompagnano il percorso di crescita di ciascuno.
L’auto-giudizio è un dialogo interiore che avviene dentro ognuno di noi e che spesso è allenato a vedere principalmente paure, errori, lacune ed ostacoli. È un elemento che viviamo nella quotidianità, al lavoro, in famiglia, nello studio, su un palcoscenico… Spesso questo nostro “ospite” desidera avere tutto sotto controllo per gestire ogni aspetto della nostra vita, al fine di farci avere maggiore sicurezza, ma sappiamo bene che la realtà è un po’ più complessa di così.
Secondo noi, riguardo a questo argomento, è molto utile quanto ci ha donato Timothy Gallwey, padre del Coaching moderno che, nel suo primo libro “The Inner Game of Tennis” e in quelli a seguire, ci parla di quanto sia importante “Il Gioco Interiore” nella nostra vita. Egli afferma che “L’avversario che ciascuno ha nella sua testa è più forte di quello che sta dal lato opposto della rete”. Questa affermazione trae origine dalla sua esperienza nel mondo del tennis, ma possiamo leggerla in modo specifico in ogni altro contesto, in ogni altro sport, come nel mondo del lavoro o in quello dello studio.
L’invito di Gallwey è quello di smettere di giudicarci, di smettere di dare così tanta importanza al nostro Sé 1 (cioè alla nostra mente) e di concentrarci solo sulle nostre azioni (Sé 2).
Non è una cosa facile da mettere in pratica nella propria quotidianità, ma in questo periodo ci siamo accorti che, quando ci abbiamo provato davvero, ci siamo riusciti!
Un’altra risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio va ricercata nella paura del giudizio degli altri. Frasi come: “Accidenti, ho sbagliato. Adesso chissà che cosa penseranno di me?” si accumulano nella nostra mente quando entra in gioco la paura del giudizio delle altre persone rispetto ad un nostro errore.
Essere amati ed accettati è uno dei bisogni umani essenziali. Il timore di non venire accettati per quello che siamo, di venire giudicati per un errore commesso, nasconde in realtà il timore dell’umiliazione, dell’abbandono, che ha origini molto antiche. Ma dovremmo ricordarci che non siamo più nel periodo paleolitico…nessun rifiuto oggi comporta un pericolo di vita e nessun errore porta all’abbandono per chi lo commette!
Dobbiamo allenarci a superare la paura del giudizio altrui, affrontandola. Imparare ad incassare con serenità un feedback negativo dopo aver commesso un errore ci farà capire che non crolla il mondo subito dopo e ci consentirà di comprendere il nostro sbaglio, di accettarlo e di apprendere come non farlo di nuovo. Ci permetterà di crescere.
Last but not least… non possiamo tralasciare un’altra ragione ricorrente che porta l’essere umano a non contemplare i propri errori: l’aspirazione ad essere perfetti.
La perfezione è vista spesso come un valore, uno standard al quale tendere. Una persona perfezionista esige da sé stessa una prestazione superiore rispetto alla media e pone grande attenzione agli errori, che diventano oggetto di vergogna e vengono considerati come indicatori di fallimento e della presunta perdita di stima da parte degli altri. Ma nonostante il perfezionista si senta orgoglioso nel momento in cui riesce ad avere una performance superiore rispetto alla media, non è mai pienamente soddisfatto. Chi aspira ad essere perfetto, nella sua ricerca irraggiungibile della perfezione, cade inevitabilmente in una trappola, la “trappola del perfezionismo”, che lo porta a non contemplare l’errore, ad essere eternamente insoddisfatto (perché la perfezione non esiste a questo mondo!) e a bloccarsi, a non avere alcun margine di crescita. Ho paura di sbagliare, quindi piuttosto non agisco, sto fermo!
E qui arriviamo all’approccio del coaching. Una delle consapevolezze più belle che il corso di Professional Coaching ci ha regalato, è stato chiarirci una volta per tutte qual è la differenza fra “ricerca della perfezione” e “ricerca dell’eccellenza”.
Il perfezionismo ci porta ad escludere totalmente l’errore dalla nostra vita, a colpevolizzarci quando ne commettiamo uno e ci fa cadere nella trappola di cui abbiamo appena parlato. Ci assorbe energia in modo maniacale, tanto da consumare le nostre “pile” inutilmente.
L’eccellenza ci stimola invece a procedere nel miglioramento continuo di noi stessi, accogliendo l’errore all’interno di questo cammino, considerandolo un “elemento funzionale al processo di apprendimento”.
La ricerca dell’eccellenza ci spinge ad avere uno sguardo curioso prima di tutto verso noi stessi, ci stimola ad aprirci a nuove possibilità e a dare concretezza ai nostri obiettivi. Tendere all’eccellenza ci permette di porre l’attenzione sui dettagli che contano davvero, sull’amore per quello che facciamo e per come lo facciamo.
Quando parliamo di percorso di Coaching, facciamo riferimento ad un cammino nel quale il Coach Professionista affianca il Coachee nella sua evoluzione personale e/o professionale. Questa evoluzione passa anche dalla scoperta e dal riconoscimento di potenzialità che, una volta divenute consapevoli, si trasformano in risorse. In questo movimento di scoperta e di massima espressione di autenticità, è possibile imbattersi in “errori” di percorso, in situazioni pianificate in un modo e andate in un altro ed in momenti di smarrimento.
In questi casi cosa facciamo?
Se da una parte il Coachee può esprimere una sorta di inadeguatezza o incapacità nel realizzare una determinata azione oppure proiettare le cause fuori da sé, finendo per colpevolizzare persone e/o eventi, dall’altra può riconoscere l’errore fino ad arrivare a condividere con il Coach azioni, emozioni e scelte che magari lo hanno condotto a realizzare un errore.
Ed il Coach? Come gestisce possibili momenti delicati? Come restituisce i feedback?
La relazione facilitante è il territorio dentro il quale il Coach accoglie il Coachee anche nei suoi momenti più delicati.
Una relazione positiva con il Coachee facilita l’elaborazione e l’esplorazione dell’errore da parte di quest’ultimo che, sentendosi a suo agio, può identificare azioni correttive e attivare strategie più funzionali che rendano efficace il suo percorso. Possiamo quindi affermare che l’errore è una preziosa opportunità di cambiamento e di crescita personale, nei casi in cui il Coachee è motivato e determinato a raggiungere uno specifico obiettivo.
Nello scrivere questo articolo ci è capitato di leggere tantissime storie di errori che sono stati commessi nel passato, che dimostrano come gli sbagli abbiano una valenza, come possano essere in effetti un’occasione di verifica, di scoperta o di cambiamento.
Piano, piano, grazie a questi esempi e alle riflessioni condivise fin ora, abbiamo cominciato a vedere l’errore come “un amico” e non più come un nemico da evitare. Abbiamo capito che non c’è nulla di male ad ammettere uno sbaglio e ad accettarlo. Solo così, infatti, potremo veramente imparare da esso e trasformarlo in una risorsa: riconosco – accetto – trasformo.
Per imparare dagli errori è importante prima di tutto riconoscerli come tali in modo da capire come non ripeterli in futuro. Bisogna poi accettare il proprio sbaglio, “abbracciarlo”, accogliere la propria imperfezione. Certo non è facile, ma dovremmo ricordarci più spesso che siamo esseri “fallibili” e non c’è nulla di male nel prendere atto di questo aspetto della nostra natura. È solo a questo punto che si può trasformare l’errore in opportunità di crescita: capendone l’origine, trovando il modo per porvi rimedio e facendo tesoro dell’insegnamento che possiamo trarne.
L’errore, a nostro avviso, ha anche un valore motivazionale. Nel possibile percorso di trasformazione dell’errore, è facoltà di ogni persona coglierne le caratteristiche e vederne la prospettiva evolutiva. Noi crediamo che per arrivare a queste osservazioni sia necessario, appunto, l’elemento “motivazionale”. Motivazione intesa come sforzo, come impegno e come tensione, che muovono una persona verso il raggiungimento di un determinato obiettivo. Quella motivazione che, alimentata da un autentico desiderio, sa accogliere ed accettare i “vari errori” di percorso.
La motivazione, quando è in armonia con quella parte di desiderio autentico (per riprendere un concetto visto prima) aderente al Sé 2, trova nel Coaching un possibile e meraviglioso alleato, in quanto diventa fonte di domande e di possibili nuove esplorazioni, nonché metodo che favorisce la realizzazione di azioni concrete. Quando siamo realmente motivati in tutti gli ambiti della nostra vita, riusciamo a sperimentare dinamiche spesso sorprendenti di fronte ad un errore.
Un ultimo spunto di riflessione sul tema dell’errore riguarda la capacità di “allenarlo”. Per allenare l’errore sono necessari: il riconoscimento dell’errore stesso, la capacità di accoglierlo e la fiducia nel nostro potenziale. Abbiamo già posto l’attenzione sulle prime due. Vogliamo qui evidenziare come, per evolvere, sia necessario un sentimento di fiducia verso sé stessi e, nel caso in cui si stia svolgendo un percorso di Coaching, anche verso il Coach. Questa condizione è imprescindibile se vogliamo utilizzare tutto il potenziale che c’è in noi. È quando il potenziale viene agito e concretizzato al massimo delle possibilità, quando diviene risorsa, che si trovano le soluzioni per superare l’errore, trasformandolo in un successo, in un’azione andata a segno. Il passaggio chiave qui sta nello slancio del potenziale che da uno stato latente, grazie a nuovi stimoli e a nuove dinamiche, può passare ad uno stato evidente, manifesto e consapevole.
Piccole riflessioni finali…
L’aver scritto questo articolo è stato per entrambi “liberatorio”. Parlare dell’errore prendendolo da destra e da sinistra, dall’alto e poi dal basso, ci è stato utile per far pace con questo piccolo grande nemico che negli anni ci ha fatto anche un po’ di paura.
Il nostro “take away” può forse essere riassunto in una domanda, che ci ripromettiamo di porci quando ci capiterà di sbagliare in futuro:
“Cosa mi perdo se non sbaglio mai?”
Abbiamo capito che se non sbagliassimo mai, non avremmo modo di guardarci bene dentro, di capire quali sono i nostri reali desideri, i nostri punti di forza e di debolezza. Non avremmo lo stimolo a cambiare punto di vista, ad allargare il nostro sguardo. Rimarremo fermi senza la possibilità di fare nuove scoperte.
Sbagliare può far male nell’immediato, è vero. Ci porta a far vacillare la fiducia in noi stessi. Mentre l’idea di essere immuni dall’errore ci sembra bellissima.
Ma il non commettere errori, non ci dà alcun margine di crescita. Ci crediamo arrivati e ci chiudiamo in una comfort zone che si trasforma in una gabbia dorata. Non è dunque meglio mettersi in gioco, sbagliare, cadere, rialzarsi, imparare e così “evolvere”? Non è più entusiasmante fare la fatica di riconoscere i propri errori, accoglierli e imparare da essi? In fondo, cresciamo soprattutto grazie ai tiri non riusciti, grazie ai goal mancati, grazie alle presentazioni non riuscite, grazie alle sessioni di coaching non perfette, accettandoci con le nostre imperfezioni, puntando ad una versione sempre migliore di noi stessi, sfruttando gli errori a nostro vantaggio.
C’è una frase che in questi giorni ci ha colpito particolarmente a tal proposito:
“Avrò segnato undici volte canestri vincenti sulla sirena e altre diciassette volte a meno di dieci secondi dalla fine, ma nella mia carriera ho sbagliato più di novemila tiri. Ho perso quasi trecento partite. Trentasei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Nella vita ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”. Queste sono le parole di Michael Jordan.
Che questa frase possa essere uno stimolo ad affrontare gli sbagli a testa alta per noi due e per chi, come noi, ha spesso visto l’errore come un nemico da evitare.
Mirko Corniani
Il Coach al tuo Fianco
Coach Professionista – Life&Mental Coach
Gonzaga (MN)
coach@mirkocorniani.com
Valeria Di Lella
HR Specialist e Professional Coach
Milano
valedilella@gmail.com
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