Categoria: Non sei solo. Come ho integrato i principi della relazione facilitante all’interno delle mie attività di formatore e volontario

Categoria: Non sei solo. Come ho integrato i principi della relazione facilitante all’interno delle mie attività di formatore e volontario

Non sei solo. Come ho integrato i principi della relazione facilitante all’interno delle mie attività di formatore e volontario

Premessa

Sono sempre più i contesti professionali all’interno dei quali vengono offerti servizi di assistenza psicologica, spesso chiamati con l’acronimo inglese EAP (Employee Assistance Programme). Si tratta di linee di supporto fornite da aziende specializzate in queste tipologie di servizi alla persona, che impiegano psicologi clinici e in alcuni casi counselor e Coach.

Per integrare il lavoro degli psicologi, in alcune aziende sono nati servizi di ascolto interni offerti da colleghi volontari formati su tecniche di ascolto attivo.

Nel ruolo di formatore di questa rete di volontari, mi sono domandato come integrare nel percorso formativo alcuni elementi qualificanti del Coaching Evolutivo®. Tenendo distinti finalità e metodi, ma identificando punti filosofici e pratici di tangenza, sovrapposizione e sinergia.

L’esercizio mi ha permesso di identificare otto elementi che nei primi esperimenti di integrazione all’interno del corso di formazione e nei colloqui che sto sostenendo con colleghi in difficoltà si stanno rivelando estremamente utili.

 

1) Il presupposto filosofico

A differenza di quanto accade con i servizi esternalizzati di EAP, i colleghi volontari condividono con quelli in difficoltà una realtà lavorativa comune. Se questo è un vantaggio all’interno delle dinamiche pragmatiche della comunicazione, la comune appartenenza presenta il forte rischio di introdurre un bias.

Il collega volontario potrebbe infatti dare per scontato un “comune sentire” rispetto a situazioni che ha vissuto in prima persona, e correre a conclusioni distorte dalla sua esperienza.

È questa la ragione per la quale nel percorso formativo sono solito sottolineare che è essenziale adottare una posizione di non assunzione e non attaccamento al nostro vissuto personale, che ha molta attinenza con uno dei presupposti fondamentali del Coaching Evolutivo®.

Al Coach è infatti prescritto di mettere da parte le proprie conoscenze sul contesto e sul contenuto. Anziché trasferire sapere all’interno di una relazione retorica asimmetrica docente/ discente, gli viene chiesto di adottare un atteggiamento maieutico. Da levatrice, che fa nascere, che porta alla luce.

Pur se all’interno di una dinamica di aiuto (e quindi in un contesto diverso rispetto alla dinamica evolutiva del Coaching), anche il collega volontario è chiamato ad adottare un atteggiamento di accompagnamento alla consapevolezza nei confronti del collega in difficoltà:

  • Facendo suo il paradosso socratico Έτσι, δεν γνωρίζω, So di non sapere
  • Ponendo all’interno dei colloqui domande aperte, dirette, non orientate, che facilitino una descrizione quanto più ricca e strutturata possibile del vissuto personale, oggettiva così come cognitiva, emozionale, agentiva e valoriale.

 

2) Le 4 A della relazione facilitante

Come scrive Raffello Rossi, L’ascolto è la medicina naturale più potente del mondo. All’interno del mio corso di formazione insisto sull’attenzione assoluta alla persona, senza distrazioni e in un ambiente confortevole e silenzioso. E sulla necessità che l’ascolto venga preceduto dalla costruzione di una fiducia che faciliti l’apertura.

Tale fiducia ha bisogno in primis di un atteggiamento non giudicante (l’unconditional positive regard teorizzato da Stanley Standal e da Carl Rogers), lo stesso che deve avere un Coach. E del primato del kairos sul kronos anche all’interno (come spesso accade) di una giornata lavorativa scandita da tempi cronologici compressi. Sono questi elementi dell’accoglienza, un’altra A della relazione facilitante del Coaching Evolutivo®.

Precondizione (e poi conseguenza) dell’ascolto è l’alleanza, che estende l’atteggiamento di fiducia iniziale dimostrata dal collega in difficoltà e la trasforma in un attivatore di motivazione a superare la problematica, minimizzando eventuali meccanismi di difesa.

Tutto questo deve realizzarsi all’interno di un contesto di autenticità reciproca, che fluidifica il dialogo e facilita un linguaggio sincero anche in presenza di rivelazioni che spesso richiedono una dose non indifferente di coraggio e di disponibilità a esporsi.

 

3) La simmetria della relazione e la complementarità dei ruoli

La relazione di aiuto tra colleghi si svolge di regola al di fuori delle relazioni gerarchiche stabilite dal contesto lavorativo. Ed è anche questo un punto in comune con il Coaching Evolutivo®, nel quale la relazione facilitante ha maggiori probabilità di successo quando non sono presenti altri tipi di relazione, e in particolare quelli di carattere gerarchico.

Per questa ragione abbiamo scelto di diffondere nel portale aziendale l’elenco completo dei volontari.

Anche grazie alle tecnologie di comunicazione a distanza, chi attraversa un momento di dubbio e difficoltà può scegliere di aprirsi con volontari appartenenti ad altre funzioni o ubicate in altri contesti geografici, con un ampio spettro di seniority ed esperienza, nella tutela della simmetria relazionale oltre che della confidenzialità.

 

4) L’acquisizione della mobilità

Proprio come accade nel Coaching Evolutivo®, il percorso di aiuto del collega in difficoltà ha successo se provoca un cambiamento. Questo è funzionale a motivare un’azione, specie quando il collega presenta un vissuto di ansia e un rischio concreto di burnout. In questi casi il contrasto al disagio richiede l’adozione di dinamiche nuove, non di rado scomode nel contesto estremamente competitivo di alcuni luoghi di lavoro.

Gli esempi concreti con i quali ho avuto a che fare vanno dall’incapacità a dire no a richieste di carichi di lavoro ingestibili, fino a dinamiche interiori complesse (perfezionismo, senso di inadeguatezza, sindrome dell’impostore, ecc.) che generano un rapporto totalizzante con il proprio lavoro, dai risultati del quale dipendono l’identità personale, l’autostima, l’immagine di sé.

Laddove nel Coaching la mobilità è funzionale all’emersione del potenziale e alla sua trasformazione in risorsa che sarà utilizzata nella fase esecutiva della sessione, nel percorso di aiuto la mobilità serve essenzialmente a sostenere una visione meno monolitica della situazione, e a invertire (o almeno rallentare) la spirale di catastrofizzazione, ruminazione di situazioni e discussioni, e autocolpevolizzazione.

Il meccanismo scatenante la mobilità resta però lo stesso: l’acquisizione di consapevolezza, che si mette in movimento con domande, feedback e accogliente silenzio.

 

5) La definizione di obiettivi e la loro natura funzionale alla motivazione

La teoria del goal setting elaborata da Edwyn Locke, Gary Latham et al. sottolinea l’efficacia degli obiettivi nella focalizzazione dell’attenzione e nell’attivazione e modulazione delle energie necessarie a raggiungerli. Porsi obiettivi è per gli autori funzionale alla motivazione e all’agentività indispensabili a realizzare un cambiamento.

Pur non essendo strettamente indispensabile un obiettivo (a differenza di quanto accade nel Coaching Evolutivo®), le relazioni di aiuto sono tanto più efficaci quanto più risultano nell’autodeterminazione di target che sappiano interrompere la spirale discendente.

L’errore che mi è capitato più volte di commettere prima di frequentare il corso di Coaching professionale è stato suggerire un obiettivo sulla base della mia esperienza, dell’”esserci passato anch’io”. Nulla di più errato. Imporre o solo indicare un obiettivo anche con tatto, gentilezza, domande orientate ha il potenziale di scatenare una forza repulsiva e contraria in un momento nel quale la persona attraversa una crisi di autogoverno.

Ho così iniziato a suggerire ai colleghi di porsi da soli un obiettivo senza avventurarmi a fornire ulteriori consigli, dando loro tempo per focalizzare strategie e tattiche necessarie alla sua realizzazione.

L’esperienza pratica è stata positiva. In particolare, ha portato alla realizzazione di sinergie interessanti con il servizio esternalizzato di EAP, dato che in molti casi gli obiettivi autodeterminati implicavano richieste di aiuti professionali specialistici – una strada non di rado rifiutata a priori da colleghi in difficoltà quando etero suggerita, in quanto nell’auto-percezione di molti implica l’ammissione di un problema di una certa gravità.

 

6) L’importanza del riconoscimento delle interferenze

Timothy Gallwey, uno dei padri fondatori del Coaching, definisce la prestazione come potenziale attivato al netto delle interferenze. Nella mia esperienza, mi è capitato piuttosto spesso di confrontarmi con interferenze, autogiustificazioni, convinzioni limitanti, blocchi. Queste dinamiche, che Gallwey attribuisce al gioco interiore tra un Sè1 che pensa e un Sè2 che agisce, possono limitare l’attivazione del cambiamento che serve a risolvere la crisi.

Così come nel Coaching, anche nell’esperienza di aiuto va stimolata la consapevolezza di queste convinzioni e del loro potere di interferire con il superamento del disagio.

Tra i fattori limitanti che mi è capitato di incontrare più frequentemente, il perfezionismo patologico è anche uno dei più subdoli. Questa tendenza a considerare inaccettabile ogni imperfezione causa procrastinazione, che inevitabilmente genera ansia quando il tempo comincia a mancare davvero. È responsabile di una perenne insoddisfazione ed è tra le principali cause di standard di comportamento e aspettative irrealistici.

Nel mio percorso formativo e nei colloqui suggerisco la sostituzione di quello che definiamo modello Superman con modelli realistici orientati all’eccellenza dinamica e progressiva, a un modello di miglioramento costante basato su sperimentazione/ errore/ messa a punto, in linea con quanto suggerito nel corso di Coaching.

 

7) Conosci te stesso

Torniamo agli aspetti filosofici che stanno alla base del Coaching, e quindi a Socrate e alla maieutica.

Il filosofo ateniese invitava a far propria la sentenza scritta sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, γνῶθι σαυτόν, Conosci te stesso. Socrate considerava la conoscenza profonda della propria anima precondizione essenziale per l’eudaimonia.

La coachability presuppone da parte del Coachee una base di consapevolezza di sé, sopra la quale edificare gli obiettivi di sessione ed extra-sessione che realizzerà attraverso una motivazione di matrice intrinseca (quindi ancora basata sulla conoscenza di sé, del proprio daimon e della propria natura profonda).

Allo stesso modo, al Coach si richiede un lavoro di scavo e elaborazione interiore che permetta di cogliere e interpretare gli elementi sottili, emozionali e a volte impliciti dell’esposizione del Coachee così da richiamarli e dar loro risalto con il feedback, specialmente con la tecnica della focalizzazione.

All’interno dei corsi e dei colloqui che conduco mi è capitato di introdurre il tema del daimon, con domande che stimolano l’analisi della propria motivazione. La logica alla base di questa scelta è la verifica delle cause del malessere, che in alcuni casi origina da una discrasia tra ciò che si fa e ciò che si è.

Questa incongruenza nasce spesso da ritmi lavorativi sempre più compressi, che non consentono l’ascolto della propria voce interiore. Non poche volte mi è capitato di ascoltare da parte dei colleghi in difficoltà metafore quali frullatore o tritacarne, per rappresentare una situazione lavorativa che non concede tregua.

In questi casi ho invitato a fermarsi e mettersi in ascolto della propria voce interiore, ponendosi domande sulle proprie potenzialità in azione e su quelle inespresse. Su quanto il lavoro (specie se svolto in modalità totalizzante) permetta una realizzazione oppure la reprima generando così una crisi di autogoverno.

Il risveglio delle potenzialità (a volte una scoperta analoga a quella che i filosofi greci chiamavano atto noetico) attraverso l’esercizio della mobilità si è rivelato uno strumento potente di autocoscienza capace di innescare un cambiamento di abitudini e di elaborare un piano d’azione per superare la crisi.

Molto efficaci si sono rivelati la teoria della ghianda di James Hillman nell’attivazione della motivazione alla scoperta e al cambiamento, e la ruota dell’autodeterminazione basata sulla teoria di Edward Deci e Richard Ryan quale mappa utile a ritrovare un orientamento.

 

8) Stress lavorativo e flow

Tra le basi teoriche del Coaching, un ruolo di primo piano è esercitato dalla psicologia positiva, che eredita gli insegnamenti sviluppati dalla psicologia umanistica di Abraham Maslow e li evolve in direzione eudaimonica per comprendere le determinanti della felicità, dell’ottimismo, dell’autorealizzazione e della soddisfazione per la propria vita.

Uno dei concetti fondamentali della psicologia positiva è quello di Flow, elaborato dallo psicologo Mihali Csikszentmihalyi. Il Flow è definito come esperienza ottimale nella quale la persona è totalmente immersa nel presente e nell’attività che sta svolgendo. Presupposto del Flow è spesso la motivazione intrinseca dell’attività.

Nel mio corso presento il concetto all’interno di una variazione contemporanea del classico grafico di Yerkes e Dodson che mette in relazione la qualità della performance con i livelli di stress (eustress e distress) esperiti (fig. 1).

 

 

Fig. 1. Relazione tra qualità della performance e stress.

 

La gran parte delle situazioni problematiche che ho gestito sono generate da livelli di stress eccessivi, o in alcuni casi troppo bassi e quindi generanti un senso di esclusione e di inattività del proprio potenziale percepito.

Durante il training enfatizzo l’importanza di monitorare il proprio impegno in modo da far sì che non evolva in uno stato di sforzo eccessivo, disfunzionale al rendimento e capace di portare alla crisi e al burnout. Lo faccio introducendo il concetto di Flow.

La frequenza del corso di Incoaching mi ha sollecitato a fare un passo avanti. Sto suggerendo infatti di adottare il grafico come mappa, per muoversi intenzionalmente all’interno di esso sulla base della propria esperienza (diversa per ognuno) fino a trovare il punto di equilibrio nel quale si realizza il Flow.

Per questo esercizio si è rivelata di aiuto la teoria del cambiamento intenzionale di Robert Boyatzis applicata al risveglio della passione per la vita attraverso la conoscenza del proprio sé reale e dei propri punti di forza caratteristici (tratti caratteriali, motivazioni, competenze).

 

Ringraziamenti

In questo articolo ho esposto l’uso pratico e immediato di alcune tecniche e principi del Coaching nella mia attività in azienda come formatore e volontario. Sento però che c’è molto altro da esplorare, e che si è aperto grazie a quella decisione un futuro di scoperte e potenzialità.

E per questo ringrazio: Giovanna, compagna di vita, esperienze, esplorazioni e scoperte, che ha intrapreso il percorso insieme a me, Padre Natale presso il cui monastero nelle Marche trascorremmo qualche giorno rigenerante nell’estate del 2021 e che per primo ci parlò di Incoaching, Alessandro, Franco, Matteo e Silvia, straordinari insegnanti, preparati, disponibili, accoglienti e autentici, Giorgia per il supporto sollecito e competente, i compagni di corso con i quali è stato un piacere imparare crescendo insieme, le psicologhe Anna Malena, Graziella e Marta che mi hanno aiutato ben oltre il loro dovere professionale quando più ho avuto bisogno, Jak che non mi fa mai mancare i suoi preziosissimi consigli, Rocco per la pazienza con la quale mi ascolta e allevia il mio lavoro di cura dei miei anziani genitori, e quella cosa strana e bellissima che chiamiamo vita, che sa sempre stupirci e indicarci nuovi percorsi di scoperta.

 

 

 

Fabio Barbieri 

Marketing and communications strategy senior manager
Autore radiofonico
Coach professionista
Milano
prospettivemusicali@gmail.com

 

 

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