
Il QuiCoaching
Ci si cerca nel passato e ci si vede nel futuro, non si riesce a dire “sono qui”.
Perché mi trovo qui?
Il prologo a questo percorso e a questo “perché” è insito nella parola speranza. La speranza è quel sentimento che mi ha resa inquieta di fronte alla realtà così com’è. Una realtà disturbata, distorta, difforme rispetto il mio desiderio, il mio intimo cammino e il mio agire. Da questo disagio, è iniziato a svilupparsi un pensiero di cambiamento per raggiungere la coerenza tra il dire e il fare. Il pensiero, cosi come l’ho formulato, l’ho poi visualizzato e sviluppato. Ho cercato, mi sono informata e quel pensiero, intriso della speranza, non si è fermato solo a osservare maè diventato un catalizzatore carico di un’energia, di un’azione e di un potenziale. Con la speranza ho dato vita ad un progetto e oggi mi rendo conto che senza di essa, non mi sarei per nulla mossa. Di fatto non ho mai fatto esami senza la speranza di superarli nè ho intrapreso alcun cammino senza la speranza di arrivare da qualche parte e magari ripartire per qualche altro luogo o tornare a casa.
Ecco perché sono qua! Il corso di Coaching ha rappresentato per me il punto di arrivo di questo pensiero e di questa speranza divenuta azione. Il coaching è il filo che unisce il tutto partendo, in primis , dall’autodeterminazione a voler vivere in simbiosi con me stessa.
Il corso, nella sua totalità – e in questo preciso momento in cui mi sforzo di mettere nero su bianco – è stato il luogo, dopo il lungo cammino, in cui mi sono fermata un attimo a raccogliere le sensazioni, a riposarmi, rigenerarmi, gustare l’arrivo, riprendere le forze, fare rifornimento di nuovi mezzi di sostentamento e ripartire.
In questo luogo pieno di rumori, fatti anche di profondi silenzi, ho meditato parecchio sulla mia situazione, sui miei sentimenti, sui miei potenziali,sulle mie paure, sulle mie motivazioni, i miei limiti, le mie energie propositive e sulla mia volontà di attuare un cambiamento. Ogni venerdì e ogni sabato, varcare la soglia del “corso”, significava chiedermi “sto facendo la cosa giusta?”. Il benvenuto dei miei colleghi, dei miei professori, della sala, delle dispense e dei racconti, ogni volta gridavano “si, è la cosa giusta!”
Ci sono cose che arrivano dirette senza il bisogno di proferire parola.
Frequentando il corso, ben presto, anzi direi nella prima mezza giornata, mi sono accorta che il metodo dell’apprendimento si basa su due principi fondamentali della vita: accogliere e ascoltare.
Mi sono chiesta quando è stata l’ultima volta che ho ascoltato o accolto qualcuno solo per il piacere di fare queste sole due azioni, senza metterci tutto il resto che poi inevitabilmente diventa più importante dell’essenziale: il fine o piacere personale? Quando è stata l’ultima volta che ho ascoltato qualcuno senza mettere in primo piano il mio vissuto o un mio parere o una mia emozione? Beh, non è avvenuto nel recente passato. Ascoltavo prendendo l’essenziale per formulare un mio parere, una mia congettura, una mia visione e ho aperto la porta a chi poteva darmi qualcosa. Non ho mai dato all’ascolto e all’accoglienza il valore di “altruismo” ma sempre di “utilitarismo”. Ecco, dopo la prima giornatami sono ritrovata a prestare attenzione mentre giravo la maniglia della porta di casa per far entarare qualcuno solo per il piacere di dargli il benevenuto. Mi sono ritrovata attenta ad ascoltare dedicandomi al 100% all’altra persona – beh si sono passata per gradi dal 40% al45% poi al 55%, , 56%, 60%, etc etc…. Insomma mi sono sorpresa ad essere sveglia, consapevole, presente e, allo stesso tempo, assente. Presente per chi era lì con me e assente dal mio “ego”.
Che grande illuminazione di semplicità.
Nonostante fossi appena all’inizio, il mio nuovo mondo aveva potenzialmente già una infrastruttura solida. Stavo diventando un coach e stavo liberandomi della vecchia Lucrezia come un serpente si libera della sua vecchia pelle. Per diventare il punto di partenza di qualcuno devo esserlo, come prima cosa, di me stessa. Ho rivisto un bel po’ di posizioni, ho distrutto e creato nuovi modus operandi, ho valutato, difeso e trasformato gli apprendimenti di una vita e tutt’oggi comunque proseguo in questa trasformazione. Ho dovuto concentrarmi su una comunicazione a favore della relazione individuale e collettiva. Ho dovuto pensare ad un piano e ho dovuto metterlo in atto. Certo sembra che io abbia trasformato me stessa in qualcosa che non ero. Invece no, ho semplicemente accordato, come un maestro di musica, tutti gli strumenti che avevo a disposizione e poi ho cominciato a suonarli. Devo dire che, dopo l’accordo, tutto ha cominciato a produrre un suono più armonioso. “ascolto, accoglienza e relazione” sono le note basiche del coaching ( e della vita), da modulare sulla giusta frequenza per produrre una nuova aria di reale bellezza.
Non si tratta più di rivoluzionare se stessi, rimanendo però fedeli a se stessi. Si tratta più di formare un dialogo e un ascolto, di formare se stessi e le persone che lo vorranno, a sostenere processi di trasformazione e verificarli, partecipando con impegno a tutte le attività. Nessuna rivoluzione, solo equilibrio fra il piano del pensiero e il piano dell’azione.
Si tratta semplicemente di dire e agire in maniera coerente.
Com’è che si perde, da un certo punto in poi o per un certo periodo, questo semplice costrutto di vita e di coerenza? Cultura, impegni, famiglia, lavoro? Si in parte si,in aggiunta però c’è una forte componente detta “paura”. La paura fonda le sue radici nella nostra infanzia quando ci insegnano ad aver paura di farci male e poi continua con la paura di fare male e poi ancora con quella di non fidarsi di nessuno per evitare che ci facciano male o di far male prima che ce ne facciano. Ci insegnano così tanto ad aver paura e procurare paure che o restiamo fermi e subiamo o partiamo istintivamente all’attacco e aggrediamo. Capita a tutti di farsi male o procurare del male e capita anche che per curarci prendiamo medicinali (consigli, “sagge indicazioni” proproste dalla massa, “è sempre così, fai come hanno fatto tutti”, etc etc) ”i cui effetti però portano a nuovi malesseri e nuovi medicinali a tal punto da smarrire il senso della cura, della strada che stavamo percorrendo e di noi stessi. Pochi riescono a dire “fai quello che senti” o “cosa provi?” o “cosa vorresti fare?” e anche quando quei pochi lo dicono, non li si ascolta percè sono voci singole in mezzo al chiasso e dentro di noi c’è solo il caos di mille pensieri scoordinati.
Ad un certo punto può succedere – o almeno a me è successo- che non si sa più dove si è o dove si voleva andare.
Per questo tipo di smarrimento ci possiamo appoggiare agli amici o ai genitori o al partner o a professionisti della psiche, possiamo anche scegliere di vedere da soli cosa c’è nel torbido o rivolgerci ad un coach. Io sicuramente posso e voglio appoggiarmi al coaching continuando ad avere me, gli amici e la famiglia come punto di riferimento. Perchè questo? Perché il principio del coaching è non creare dipendenza dal coach. Il coach a differenza di tutti ascolta, qui e ora, incondizionatamente e mi lascia libera di esprimermi,qui e ora,al meglio e al peggio delle mie qualità. Il coach non mi giudica, non risolve i problemi, non scava nel passato, non cerca patologie bensì esalta le potenzialità e il senso di autorealizzazione; lascia tutto il tempo di cui si ha bisogno per riflettere. Non seziona, non condiziona e al più aiuta a dileguare le nebbie. E mentre si parla e si ragiona con il coach, ad un certo punto io mi sono chiesta “scusa, ma che problema avrei io?”
Di certo non voglio minimizzare né escludere la presenza di un problema. So benissimo che nel micromondo di fatti, di io, di azioni e reazioni ci sono i problemi e come tali sono da risolvere. Alcune volte però il problema è più mentale che pratico. E’ un blocco! Il coach scioglie il nodo tra le due dimensioni e induce all’azione praticaverso obiettivi raggiungibili.
Il Coaching è fare.
Cosa significa “fare”? Partendo da una situazione tipica che è quella in cui le persone (compresa me stessa) da sole non riescono a farsi chiarezza, a maturare la consapevolezza, a trovare la motivazione e la costanza per adottare comportamenti funzionali alla trasformazione desiderata, il coaching invoglia a rompere ogni indugio. Chi richiede un intervento di Coaching, sente forte la necessità di portare mutamenti nella propria vita, superando i bisogni contingenti o le mancanze da riempire. L’obiettivo del coach è allearsi con il proprio coachee e accompagnarlo nel viaggio che lo porterà dal come vivo il mio “oggi” al come vorrei che fosse il mio “futuro”. Il futuro è spesso sentito, immaginato e desiderato e non sempre coincide con il concetto di concretezza, misurabilità e verificabilità. Ad esempio: io Lucrezia voglio diventare manager. Il mio compito di coachee, supportata dal coach,sarà autodeterminare e fissare gli obiettivi per raggiungere il mio futuro desiderato. In altre parole, non dovrò semplicemente scrivere la lista dei buoni propositi ma dovrò scrivere ilpiano di lavoro che delinea passo per passo le azioni da compiere e verificare per arrivare al nuovo ruolo. Il compito del coach, una volta identificate le caratteristiche principali e le inclinazioni motivazionali, sarà quello di appurare che i miei potenziali e il mio senso di autoefficacia siano sempre allineati e allenati oltre a supervisionare che ci sia sempre una coerenza tra la visione del mio futuro desiderato e l’obiettivo fissato. Un’obiettivo deve dunque:
- essere definito nel rispetto della posizione che si vuole avere.
- essere chiaro e sfidante
- essere specifico, misurabile e deve avere un suo ciclo temporale oltre il quale non si deve andare.
Tornando al esempio di essere promossa al ruolo di manager, poiché so che all’interno della mia azienda posso diventare eleggibile dopo 36 mesi di permanenza nell’attuale ruolo, quello che posso fare è crecare di traguardare il 36° mese con competenze già da manager. Cosa posso fare affinchè 36 mesi siano sufficienti per entare nella lista delle promozioni con il voto più alto per posizionarmi tra i primi ed essere promossa nel minor tempo possibile? Dovrò pormi l’obiettivo basico di diventare più visibile ai piani alti della mia azienda e di uscire ogni anno con un voto alto. Cosa posso fare per farmi vedere dall’azienda? Dovrò iniziare a lavorare su argomenti che interessano un manager. Ad esempio chiedere di occuparmi degli economics del mio progetto. In merito al primo punto della lista, questo obiettivo è parte del mio futuro desiderato e lo rispetta in pieno. Passando al secondo punto, per occuparmi degli economics dovrò innanzitutto rendere chiara la mia posizione al mio diretto superiore e al gruppo delle risorse umane. Definita la mia posizione e chiarita a chi di competenza, potrò iniziare a specificare le azioni da seguire:
- chiedere di seguire dei corsi specializzanti entro l’anno fiscale
- concordare il passaggio di consegna delle mie vecchie attività in modo da potermidedicare alla nuova
- affiancare il mio manager nella gestione degli economics
- definire un tempo entro cui diventare autonoma
- chiedere periodici feedback sul mio lavoro.
Chi può aiutarmi nel raggiungimento del mio obiettivo? Di certo Il mio capo. Se cresco io, cresce lui. Poi, un corso, del materiale informativo e magari altri colleghi che hanno fatto lo stesso mestiere. Chi/cosa può ostacolare il percorso? Ad esempio, sul mio progetto non c’è una posizione aperta per promuovere il mio manager a senior manager. Se non cresce lui non cresco io. Come aggirare questo ostacolo? Chiedere sempre al mio manager prima e alle risorse umane poi se ci sono altri progetti con aperte posizioni per me. Questo lavoro va così a definire un traguardo concreto da raggiungere con determinati strumenti, in un tempo delimitato e con la consapevolezza da parte mia di consocere e valutare meglio il mio contesto, le mie relazioni, le opportunità e le barriere. Siamo così giunti alla specifica del 3° punto. Per concludere, a titolo informativo, oggi ho cambiato progetto e sono rientrata nel mio piano di carriera. Come direbbero gli americani: Well Done!
Questo è in sistensi un esempio di come definire gli obiettivo per raggiungere il futuro desiderato. Ci sono svariati casi e comunque degli strumenti adatti per far si che io (o il coachee in generale) scriva nero su bianco ciascuna azione con i suoi pro/contro e tempi e poi li rispetti tutti a livello di azione.
Ritornando al contesto più ampio del mero obiettivo, posso affermare che con una base di ascolto-relazione e con pratiche regole di definizione e azione,inizia il nuovo percorso verso l’autorealizzazione.
Il nuovo altro non è che muoversi in una direzione e guardare cosa accade, assaporare l’avventura e verificare sempre che le intenzioni di partenza coincidano con il nuovo punto di arrivo. Inizia il cammino e man mano che vado avanti, nonostante resti dentro l’inquietudine e una sorta di paura, mi sento attivata verso qualcosa che anche se uguale al passato (ad esempio, non sarò promossa al primo giro) non avrà lo stesso significato.
“Iniziare un nuovo cammino ci spaventa, ma dopo ogni passo ci rendiamo conto di quanto fosse pericoloso rimanere fermi”. Questa è una citazione di Roberto Benigni ma ben già avanti nel tempo, la riscopro in una favoletta carina “Chi ha spostato il mio formaggio?” di Spencer Johnson.
Non è mia intenzione fare il riassunto della storiella ma prendere spunto da quest’ultima per trattare un argomento che non mi ha mai spaventata e anzi ritengo il fine naturale della vita: il cambiamento. Allenarsi al cambiamento (o in generale alla trasformazione) è salutare tanto nella vita personale quanto in quella professionale. Chi dà per scontato la stabilità di un presente soddisfacente, si troverà impreparato all’inevitabile trasformazioneche la vita imporrà. Dopo aver raggiunto un obiettivo è alquanto facile cadere nelle pigrizia interropendo il percorso di evoluzione. Chi non è caduto almeno una volta in questa deliziosa trappola? E chi, almeno una volta, non ha provato il fastidio di non aver più nulla da fare?
Io personalmente ho vissuto entrambe le situazioni e quando mi sono resa conto che il maggior freno al cambiamento ero io e che le cose non miglioravano perché io restavo ferma, allora il nuovo ha cominciato a prendere forma. Il nuovo non è una cosa diversa da quello che ci aspettiamo ma è esattamente quello che viviamo. Nasciamo, cresciamo, impariamo, disimpariamo, impariamo nuovamente sino alla morte. Una vita così evolutiva non può essere statica e ferma. Ogni giorno ci sembra di fare le stesse cose ma non ci rendiamo conto che ogni momento di ogni giorno è diverso.
“Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l’uomo né le acque del fiume sono gli stessi”. Cosi si esprimeva Eraclito nel V secolo a.c. e così è ancora nel XXI secolo d.c.. Tutto scorre.
Non esiste una vita statica a meno che non si voglia volontariamente stare fermi e anche se si decidesse di restare fermi, il mondo continuerà a girare, sarà giorno e poi notte, cambieranno le stagioni e cambieremo noi, i bambini nasceranno, gli studenti saranno bocciati o promossi. Uomini e donne andranno e verranno da lavoro, dalle proprie dimore, dai propri guai. No,non si può stare fermi pur volendo. Seguire il flusso è più semplice. Lasciarsi andare alla vita è più semplice.
Il coaching agisce nella direzione del cambiamento e del vivere. Non si preoccupa tanto di dove siamo ma della nostra personale consapevolezza del luogo in cui ci troviamo. Non si preoccupa dove vogliamo andare ma della personale consapevolezza che il cammino sino a quel luogo è il viaggio. Non si preoccupa se sbagliamo o prendiamo un bivio, a dire di qualcuno, errato. Si preoccupa se noi siamo coscienti di essere là, coscienti di aver agito e di agire nel bene e nel male. Il coaching ci chiede continuamente di verificare se siamo dove vogliamo essere e se il nuovo punto di arrivo è la nostra nuova ripartenza. Chi se ne importa delle strade già fatte. Io ho la mia strada e ciascuno di noi ha la propria. Le strade si incontrano, si intrecciano, si allungano o si accorciano, deviano,sono a una corsia o doppia corsia, sono interrotte per lavori in corso o sono chiuse. Su queste strade ci sono io, ci siamo tutti. Ci si incontra, si cammina assieme e magari ci si lascia. Ben venga incontrare qualche cartello che ti dia indicazioni. Ben venga che noi tutti camminiamo con la consapevolezza di arrivare. Il coaching è la consapevolezza di ciascun individuo. Essere consapevoli vuol dire essere svegli e attenti. Essere individuo significa essere un pezzo autentico nel grande sistema che è la vita. Essere autentico significa distiunguersi per quello che si “fa” e per “come” lo si fa.
Diventare un coach è per me una esperienza elettiva e al contempo naturale. Se ci penso, il coach non fa niente di difficile dato che si limita ad innescare processi che poi si svilupperanno da sé e non fa neppure nulla di maestoso visto che sveglia semplicemente un soggetto addormentato. Ma è appunto per questo che è in grado di compiere ciò che alla fine sarà grande.
Lucrezia Martiradonna
Consulente informatico
Life coach
lmartiradonna@yahoo.it
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