La parabola dei tesori e dei talenti che rendono unici
Stricto sensu
Che cosa ci rende unici nel nostro dire, fare, pensare?
Che cosa ci distingue gli uni dagli altri nel modo di rispondere agli eventi, di porci di fronte all’altro e di muoverci nel mondo?
In senso lato potremmo pensare alla ricca combinazione di conscio e inconscio, mondo cosciente e mente insaputa che genera le magiche essenze della vita umana.
In senso stretto, volendo guardare dalla prospettiva del potenziale umano, potremmo invece rispondere… lo stile, così come la scienza psicologica ce lo suggerisce: ci riferiamo a quella tendenza costante ad utilizzare determinate strategie logiche, verbali, creative, compreso quell’insieme di modalità sensoriali con cui riceviamo stimoli e informazioni e le elaboriamo, trasformandole.
Ne consegue che lo stile definisce le nostre preferenze mentre le nostre stesse preferenze sono influenzate dai talenti quali principali tesori di cui disponiamo.
Ragionando sul senso del talento…
Tentiamo di allargare la prospettiva… e allora immergiamoci nella saggezza del mondo greco.
Nell’antica Atene poco più di 20kg di argento corrispondevano a 1 talento.
Nella sua etimologia la parola richiama la misura del valore, il piatto della bilancia e un peso che segna metaforicamente l’inclinazione naturale che contraddistingue un soggetto.
La parola talento evoca di preciso ciò di cui si è naturalmente provvisti, un’abilità naturale superiore alla passione, alle generiche capacità, distinta anche dalle potenzialità.
Singolare è la definizione di alcuni linguisti che identificano la parola talento come desiderio che si radica in una abilità conducendo il soggetto a fare naturalmente bene una determinata cosa.
Tuttavia, un passo superiore di senso viene dato alla parola attraverso la celebre parabola dei talenti di San Matteo.
Proprio attraverso il testo antico emerge quanto non sia sufficiente possedere un talento: quest’ultimo non genera valore se non è messo in movimento, se non viene valorizzato, esaltato nel segno che porta, o ancor più vitalizzato attraverso un’azione che lo sospinge nel progetto futuro.
La parabola ci insegna che il talento è ricchezza e al contempo capacità di generare ricchezza, se ascoltato e soltanto se siamo in grado di prendercene cura. Non solo. La parabola è una esortazione a non porci inerti e immobili ma ad accettare di sbagliare per generare nuovi frutti.
È in questi termini che le nostre singolari doti rivelano la profondità del nostro essere e la nostra unicità se sappiamo, con stabile consapevolezza, dare fiducia alla scintilla che riusciamo d’inizio solo ad intravedere.
Per valorizzare un talento e consentirgli di esprimere la potenza che esso contiene in termini di progettualità futura, quattro elementi emergono chiaramente:
1) Fiducia intesa come capacità di affidarsi alla rivelazione della dote e dei suoi segnali;
2) Disposizione ad accettare il rischio che nasce dell’imponderabile che ogni talento porta con sé;
3) Investimento ovvero scegliere consapevolmente di dedicare tempo, energie, risorse personali per scoprire tutti gli ambiti potenziali del talento;
4) Capacità di tenere sotto controllo i pensieri autolimitanti, sabotatori di pianificazione e di motivazione.
C’è talento e talento…
All’interno della vasta gamma dei talenti umani ce ne sono due che spesso non sono riconosciuti chiaramente perché non identificati con un fare specifico. Eppure, chi li coltiva, ha la capacità di evolversi in ordine ai suoi desideri più autentici. Ci riferiamo alla capacità di saper fare sé stessi e alla capacità di imparare ad imparare.
Entrambi, inoltre, sono strettamente correlati all’emergere di due talenti di prospettiva riflessiva, la cui combinazione consente al soggetto di esaltare il proprio potenziale. È dunque utile prendere coscienza del proprio talento analitico (propensione per il dettaglio, per il ragionamento logico e sistemico, abilità speciale nella focalizzazione del dettaglio) e di quello globale (capacità di comprensione della complessità insita negli ambiti generali, capacità sintetica di interpretazione delle situazioni, capacità di comprensione della visione d’insieme).
Perché è così difficile seguire il proprio talento?
Il talento ci spinge a rischiare. Rischiare però non piace all’essere umano perché lo conduce fuori dalla proprio confort zone. Spesso seguire la scia potenziale del proprio talento pone il soggetto di fronte a quello che lo psicologo Gay Hendricks, definisce come il “margine di tolleranza della felicità ovvero un limite entro il quale ci consentiamo di stare bene, spesso per paura di raggiungere il pieno potenziale”.
Il concetto ci ricorda che abbiamo tutti la tendenza primaria ad andare alla ricerca di cose che già conosciamo o che ci sono familiari.
Pensiamo di voler essere felici, tuttavia la felicità è un processo e un progetto che richiede audacia, dinamismo e salto della linea retta per concedersi di aprirsi alla scoperta più autentica di sé stessi.
Ecco perché, quando il talento ci chiama ad andare oltre la soglia massima di tolleranza della felicità, cerchiamo subito, non sempre in modo consapevole, di ritornare ad un livello emotivo più conosciuto, più prevedibile e che possiamo tenere sotto controllo.
Al contempo il talento non va confuso con le potenzialità, questione che apre contesti semantici plurimi e che la nostra Scuola INCOACHING® consente di esplorare analiticamente, tanto nella teoria quanto nella pratica di essere Coach.
Se vuoi approfondire l’argomento, leggi questo articolo.
In esclusiva per INCOACHING®, testo di Simona Rebecchi – Coach professionista diplomata INCOACHING®
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