Categoria: Il mito delle domande potenti

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Il mito delle domande potenti

Siamo quello che facciamo?

Se l’uomo non interrogasse sé stesso non ci sarebbe ricerca, esplorazione e con essa una evoluzione del sapere. Viviamo costantemente immersi nelle domande, tuttavia, è solo un quesito ben posto quello capace di stare all’altezza di un autentico bisogno di condurre alla verità più nuda e diretta. E dunque: cos’è il Coaching, se non anzitutto l’arte di domandare in modo funzionale e costruttivo per l’altro, con il fine di veicolare la sua crescita personale?

Ogni Coach si caratterizza per questo incedere, presupposto che ogni interrogativo costituisce la prima chiave di apertura alla consapevolezza dell’altro, capace come tale di eccedere oltre il suo limite di pensiero per farlo accedere ad un mondo di insperate possibilità.

Poiché un quesito ben posto presuppone un complesso articolato di pensiero e di prassi linguistica, proprio nel Coaching capita di incorrere in un equivoco: credere al mito delle domande potenti. Molti Coach pensano che l’efficacia della propria prestazione professionale dipenda dalla capacità di articolare quella specifica domanda “potente” che, come tale, riesce ad aprire d’immediato una folgorazione di verità nell’altro.  In quest’ottica, spesso nel percorso formativo si incontra un Coach incline a credere e ricercare alcuni interrogativi reputati più significativi e maggiormente idonei a favorire la consapevolezza del Coachee.  Quasi come a voler stabilire una gerarchia di valore tra le domande, differenziando aprioristicamente le normali e consuete da quelle più potenti. Questo modo di intendere la domanda con la D maiuscola, poiché generalmente speciale o perfetta, diviene nell’essere Coach limitante e disfunzionale alla esplorazione del Coachee. In tal senso ogni coach è invitato ad attuare un significativo passaggio nella prassi professionale: dal concetto di assodata e assoluta potenza al concetto di efficacia specifica e relativa.

 

Potenza vs efficacia.

Per meglio intenderli si faccia un passo indietro. Il primo punto da considerare è la persona/Coachee: sappiamo bene che il materiale su cui lavora il coach è ogni volta unico e imprevedibile perché poggiato sulla unicità dell’individuo, ognuno differente per storia personale, modo diverso di pensare, di parlare, di sentire, di motivarsi e di agire. In questo senso, la domanda ben posta non è quella che vanta una convenzionale sacralità di potenza rivelatrice, piuttosto il gioco riflessivo deve compiersi sul piano del concetto di efficacia. Nessun Coach può sapere aprioristicamente quale domanda sarà più potente per il Coachee, a cominciare dal fatto che ogni dialogo di Coaching si basa proprio sulla scommessa di insaputo, di inespresso, di insperato. In questo senso il coach è indotto ogni volta ad allenare la sua creatività linguistica per poter articolare una sequela di domande che reputa più efficaci e significative nell’intuizione del caso, per passo della conversazione e per sentore del Coachee.

Nel rispetto di quest’ottica, attraverso la formazione avanzata si approda a comprendere che la domanda efficace propriamente detta è quella che ha la capacità “di stimolare un processo maieutico volto alla consapevolezza, alla ricerca e alla attuazione di soluzioni”. Per questo motivo non è la Domanda potente che conta; piuttosto sono rilevanti quelle capaci di attivare nel Coachee “un processo creativo e auto generativo della scoperta di sé”. Non solo. Le domande necessitano di essere differenziate per forma che a sua volta ne qualifica un diverso utilizzo o funzione.

Il concetto di efficacia di un quesito conduce inevitabilmente verso l’affinamento di una certa competenza linguistica con cui è possibile articolare un dialogo funzionalmente esplorativo per il Coachee.

In tal senso, senza ricorrere ad una disamina glottologica, ogni giorno il Coach sperimenta l’importanza di articolare una sequenza di domande con caratteristiche basiche: che siano aperte e non chiuse, poggiate sul filo della narrazione dell’altro, inclini a generare altre domande di approfondimento, capaci di interrogare il Coachee sul piano del pensiero, del ragionamento, dell’immaginazione, del tempo, del sentire, dell’agire. Poiché, come anticipato, ogni interrogativo risponde alla necessità di condurre il Coachee verso la progressiva individualizzazione delle sue qualità, attitudini e dei punti di forza, ci sono tuttavia dei rischi che minano l’efficacia comunicativa e di dialogo.

 

Quali limiti si incontrano nella formulazione di una domanda?

La sensibilità di una pratica di Coaching richiede di superare alcuni ostacoli normalmente evidenti in una domanda mal posta, quali:

  • Complessità nel senso di un quesito eccessivamente lungo o articolato, rispetto alla ampiezza linguistica e riflessiva del Coachee.
  • Inopportunità quando la domanda forza i tempi di riflessione del Coachee, con il rischio di attivare resistenze o meccanismi di difesa.
  • Tono di rimprovero, critica depotenziante o giudizio che tende ad evidenziare una fallacia o una mancanza nello schema di pensiero del Coachee.
  • Domanda retorica quando contiene in sé la risposta implicita poiché limita la libertà di pensiero e decisionale del Coachee.
  • Successione rapida delle domande quando vengono poste in serie, con cadenza a grappolo, tale da creare confusione nel ricevente Coachee.

A tutto questo si aggiunge una prassi che vale a rinforzare il momento di esplorazione della risposta del Coachee poiché la necessità prima è donare uno spazio di risposta e di reazione dell’altro: è dunque buona cosa per un Coach   fare silenzio dopo la formulazione della domanda, nel rispetto dei tempi riflessivi e della sua capacità e libertà rielaborativa.  Per il Coachee il messaggio che ne consegue deve essere chiaro e semplice, ovvero… “hai tutto il tempo che ti serve”.

Nella nostra Scuola INCOACHING® una pratica eccellente presuppone la capacità di lasciar andare il mito delle domande potenti per allenare il talento delle domande ben poste; lo scopo è sortire l’effetto che Heidegger esalta nei suoi scritti: “non sempre una domanda richiede una risposta immediata. Spesso chiede di essere dispiegata affinché ceda quello cha ha di più essenziale, quando ci si appropria di ciò che segretamente custodisce”.

Se sei interessato a partecipare a un corso certificato di Coaching, contattaci.

 

 

In esclusiva per INCOACHING®, testo di Simona Rebecchi – Coach professionista diplomata INCOACHING®

3 Comments
  • Mariangela Ravera

    26 Aprile 2023at13:20 Rispondi

    Confermo che Incoaching è stata la scelta di formazione professionale ad hoc per me!

  • Giorgia Frattini

    26 Aprile 2023at13:29 Rispondi

    Grazie per l’articolo che trovo utile per riflettere su un aspetto che credo importante nel Coaching: l’intuizione.
    Ci sono scuole che propongono corsi di Coaching in cui si imparano liste di “domande potenti”. Penso sia più efficace rimanere concentrati sul Coachee piuttosto che sul cogliere il momento in cui “piazzare” una di queste domande ed essere creativi nel formulare un quesito “allineato” con il flusso del discorso del Coachee.
    Trovo che, vivendo le sessioni con naturalezza e presenza, le domande giuste vengano spontanee.
    Grazie

  • Paola

    26 Aprile 2023at15:48 Rispondi

    “Non sempre una domanda richiede una risposta immediata. Spesso chiede di essere dispiegata affinché ceda quello cha ha di più essenziale, quando ci si appropria di ciò che segretamente custodisce”… Che bella questa frase.
    E questo si esprime anche nel compito del Coach di guidare il Coachee nell’esplorazione del proprio obiettivo, “meta” e di singola sessione.
    L’esplorazione dell’obiettivo.
    Alla ricerca della vera e ancora non esplorata domanda.

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